Descrizione dettagliata della chiesa

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Descrizione dettagliata della chiesa
PROGETTO SALVALARTE
LA CHIESA DI S. PIETRO MARTIRE A VERONA
(S.GIORGETTO)
Una descrizione dettagliata della chiesa con
alcune possibili interpretazioni sull’affresco del Falconetto
A cura di Legambiente Volontariato Verona
CHE COS’È IL PROGETTO SALVALARTE
Salvalarte è la "veterana" tra le iniziative di Legambiente
Volontariato Verona nel settore dei beni culturali.
Si pone un duplice obiettivo: da una parte, segnalare le emergenze
monumentali più a rischio e promuovere una campagna di
sensibilizzazione per attivare i meccanismi per
il loro recupero. Dall'altra, far conoscere, promuovere e valorizzare
anche quei beni culturali cosiddetti "minori", al
di fuori degli itinerari turistici tradizionali e sconosciuti al "grande
pubblico", ma non per questo meno importanti. Volontari di
Legambiente, amministratori, soprintendenti, studenti e cittadini
tutti insieme in prima linea, dunque, in difesa di un patrimonio che
rappresenta l'unica ricchezza di cui l'Italia dispone più d'ogni altro
Paese al mondo.
Come volontariato si gestisce la chiesa di S. Pietro Martire, più nota
come S.Giorgetto, permettendone l’accesso
gratuito, organizzando varie iniziative per farla conoscere
maggiormente, curando spiegazioni del monumento in varie lingue
e raccogliendo eventuali offerte libere destinate al restauro degli
affreschi.
“In San Pietro Martire, Chiesa già dedicata a San Giorgio, si vede
in molti ripartimenti questo Santo, e Cavalieri inginocchiati, armati
per lo più con barbuta di maglia, cimier cadente dietro le spalle,
croce davanti, e spada, che pende da una catena incrocicchiata, e
fermata sul petto: rappresentano alcuni Cavalieri Tedeschi, de’
quali si veggon sotto i nomi: è notato dell’un di essi, che morì nel
1355”
Scipione Maffei - Verona Illustrata, Pitture, capo sesto, pag.1501732
San Giorgio e i cavalieri tedeschi
La chiesa di San Giorgetto e le sue pitture
NOTIZIE STORICHE
SAN PIETRO MARTIRE, SAN GIORGIO O GIORGETTO ?
LA TENACIA DEI VECCHI NOMI
Nel ‘300 i veronesi continuavano a
chiamare “dei Lamberti” la torre, che da
due secoli non era più di quella famiglia ed
era diventata la torre del Palazzo del
Comune, e continuarono a chiamare
“Santa Anastasia” la chiesa che i
domenicani avevano da poco intitolata al
santo del loro ordine, S. Pietro Martire.
Per il povero santo con la roncola si cercò
di ripiegare sulla vicina chiesetta di San
Giorgio, che i veronesi, incuranti
dell’ufficialità, chiamano ancor oggi San
Giorgetto
Eppure al santo martire domenicano non
mancavano certo “appoggi”: era veronese,
apparteneva ad un ordine potente e
sostenuto dalla famiglia al potere ed era
stato associato a San Zeno come patrono di
Verona.
Ma doveva condividere l’intitolazione con
il santo cavaliere, che godeva di più
popolari attrattive, la principessa, il drago,
la pubblicità che ne avevano fatto i crociati
e, nel nostro caso, il simpatico diminutivo.
L’affresco sulla facciata, di Paolo
(o Jacopo?) Ligozzi illustra questa
coabitazione. I santi Pietro e Paolo
vigilano ai lati
1- Portale della chiesa.
SAN PIETRO MARTIRE
Pietro nacque a Verona nei primi anni del XIII secolo, secondo i suoi biografi da una famiglia di catari.
Studente a Bologna, conobbe San Domenico ed entrò nell’ordine domenicano. I frati predicatori, i
“domini canes”, cani di Dio, erano alla testa della lotta mortale contro le sette ereticali (catari, patarini,
umiliati ecc.) Anche Pietro da Verona fu attivo come predicatore in varie città italiane, soprattutto a
Firenze e a Milano dove fu nominato, nel 1242, inquisitore, e dove condusse un’aspra battaglia per la
repressione dell’eresia. Il suo ultimatum agli eretici lombardi, perché si piegassero agli ordini della
Chiesa, doveva scadere il 7 aprile 1252, ma il giorno prima, sulla strada tra Como e Milano, vicino a
Seveso, Pietro cadde sotto i colpi di un “falcastrum”, una specie di falcetto o di roncola con la quale fu
mortalmente ferito al capo. Nel 1253 fu canonizzato, divenendo il primo martire domenicano e uno dei
santi più venerati dell’ordine, dopo il santo fondatore che era morto nel 1221.
I suoi miracoli riguardano l’attività di predicatore e la lotta con gli eretici: una nube ripara dal sole i
fedeli che lo stanno ascoltando; un’improvvisa afasia impedisce, in un pubblico confronto, la replica ad
un avversario cataro. Venato di gusto popolaresco anche un suo miracolo post mortem: nelle Fiandre,
macchie di sangue colano sul merletto di un gruppo di merlettaie, colpevoli di deridere i domenicani
che stanno celebrando la canonizzazione del loro martire. Naturalmente era invocato per guarire dal
mal di testa.
I DOMENICANI A VERONA
I frati predicatori giunsero presto a Verona, nel 1220-21. Nel 1225 edificarono la chiesa di Santa Maria
Mater Domini presso il loro convento in Valdonega. Nel 1238 la chiesa fu consacrata e nel 1244 il
convento poté ospitare un capitolo generale dell’ordine. Anche a Verona i domenicani erano attivi
repressori dell’eresia: Giovanni da Schio guidò, nel 1233, il grande movimento dell’Alleluia e un
processo con la condanna al rogo per sessanta eretici veronesi.
Solo nel 1262 i domenicani poterono costruire un convento all’interno della città, in un’area donata
loro dal Vescovo Manfredi, dove sorgevano le chiese di Santa Anastasia e San Remigio. Negli stessi
anni 1261-62 anche gli altri ordini nuovi, francescani ed agostiniani o eremitani, si trasferiscono
all’interno delle mura comunali, soppiantando i vecchi monasteri benedettini.
I lavori di costruzione della nuova, grande chiesa che si sarebbe dovuta intitolare a San Pietro Martire
iniziarono probabilmente attorno al 1290 e si protrassero a lungo, fino alla quattrocentesca incompiuta
facciata.
LA CHIESA DI SAN GIORGETTO
Non ci sono documenti sull’edificazione della chiesa di San Giorgetto. Biancolini (Notizie storiche
delle chiese di Verona 1746) la fa risalire al 1283, data dell’ arca di Guinicello dei Principi, poi Verità,
incastonata sul muro esterno. Per M.T. Cuppini (L’arte gotica a Verona, in Verona e il suo territorio
v.III, t.2) la chiesetta fu eretta all’inizio del ‘300, dopo che era cominciata la costruzione di
S.Anastasia.
La semplice struttura esterna in cotto è scompartita da sottili lesene e coronata da un motivo di archetti
pensili. Sulla facciata, a fianco del portale sormontato da un protiro pensile, è incastonato il
monumento funerario di Bavarino de’ Crescenzi, dotto medico morto nel 1346, raffigurato con i suoi
allievi su una lastra di marmo rosso.
Su retro sono addossate al muro tre urne: quella di Guinicello dei Principi, passata poi alla famiglia
Verità; quella di Leonardo da Quinto, in marmo rosso col corpo del defunto ritratto sul sarcofago; e
quella di Bartolomeo Dussaini, sollevata da terra sotto un arco trilobo.
Sopra l’arco di ingresso del cortile vi è l’arca di Guglielmo da Castelbarco, morto nel 1320, grande
finanziatore delle chiese domenicana e francescana.
LA RIBELLIONE DI FREGNANO
Nel 1350 il figlio di Mastino II, Cangrande II, sposava la figlia del’Imperatore Lodovico il Bavaro,
sorella di Lodovico di Brandeburgo Tirolo. Mastino prestò al brandeburghese una grande somma di
danaro, e l’amicizia venne consolidata negli anni seguenti con visite reciproche.
Nel febbraio 1354 mentre Cangrande era, col fratello minore Cansignorio, a Bolzano presso Lodovico,
il fratellastro Fregnano della Scala tentò, con l’aiuto dei Gonzaga, di impossesarsi di Verona.
Cangrande II, rientrato immediatamente con 600 cavalieri veronesi e vicentini e con 200 padovani
inviatigli dai Carraresi, mosse da Vicenza verso Verona. Con lui erano 100 cavalieri brandeburghesi,
messigli a disposizione dal cognato. L’attacco avvenne all’alba del 25 febbraio: furono superate le
mura alla porta di Campomarzio e lo scontro avvenne attorno al ponte delle Navi. Fregnano, accorso al
di là del ponte, fu disarcionato, tentò di ripassare il fiume su una barca ma, ferito, cadde in acqua e
annegò. Morì affogato anche uno stipendiarius tedesco al seguito di Cangrande. Sul luogo della
battaglia fu eretta la chiesa di Santa Maria della Vittoria, che diede il nome alla porta presso l’Adige.
I CAVALIERI BRANDEBURGHESI
Si trattavano probabilmente di armati provenienti dal Tirolo, non dal lontano Brandeburgo: a Lodovico
di Wittelsbach, Conte del Tirolo, veniva in primo luogo attribuito il titolo di Marchese di Brandeburgo
e per questo i suoi cavalieri sono chiamati “brandeburghesi” dai cronisti veronesi.
Alcuni di questi dovettero rimanere al servizio di Cangrande (mercenari tedeschi erano spesso assoldati
negli eserciti scaligeri). Il 24 aprile 1354, festa di San Giorgio, istituirono una messa perpetua nella
chiesa consacrata a San Giorgio e fecero dipingere i loro stemmi e un’iscrizione, in memoria della loro
donazione.
ISTI SUNT FUNDATORES D ISTA MISA QUE DEBET ESE SEM
PER OMNI DIE ORA TERCIA IN ONORE SA GEORI ET PER OM
NIB’ THETONICIS FIVIS ET MORTIS ET EST CONSECRATA
IN FESTO SCI GEORI ANO DOMINI MCCCLIIII XXIIII APRILIS
Gli stemmi e le scritte che li accompagnavano erano già “in gran parte guasti e di sorte che abbiamo
potuto rilevarne soltanto alcuni” quando ne scrisse Biancolini, nel 1746.
Nel 1912 Giuseppe Gerola (I cavalieri tedeschi ed i loro ritratti e stemmi- Madonna Verona) ne diede
una dettagliata descrizione.
DAL QUATTROCENTO ALLA CONFISCA NAPOLEONICA
Nel 1424 la chiesa fu concessa alla Confraternita laica di S.Pietro Martire, e fu intitolata al santo
domenicano: si vede la lapide dipinta sulla destra della controfacciata. Passò poi alla famiglia Salerni
(1494) e di nuovo ai Domenicani. Durante le guerre napoleoniche servì da riparo ai soldati francesi,
che annerirono gli affreschi “col fumo del fuoco acceso nella chiesa per riscaldarsi” (Saverio Dalla
Rosa, 1803) Nel 1807 la chiesetta fu espropriata; il convento fu soppresso e divenne la sede del Liceo.
Gli affreschi, ancora visibili nel 1803 e descritti nel “Catastico delle pitture” di Dalla Rosa, vennero in
gran parte coperti da generale scialbatura e recuperati solo negli anni 1884-96.
DESCRIZIONE DELL’INTERNO
LA DECORAZIONE PITTORICA
Alla decorazione pittorica più antica, le due fasce a motivi vegetali dell’inizio del ‘300, si aggiungono
dopo il 1354 gli stemmi dei cavalieri tedeschi, l’affresco con la Crocifissione della parete di fondo e
una serie di riquadri votivi, con lo schema ricorrente del cavaliere inginocchiato presentato alla
Madonna col Bambino da alcuni santi, tra cui è sempre presente San Giorgio.
Per la datazione di questo gruppo di opere, realizzate nel giro di pochi anni dopo la data dell’epigrafe,
fanno fede le scritte accompagnatorie. “E’ notato dell’un di essi, che morì nel 1355”, scriveva Maffei,
ma Giuseppe Gerola lesse la data 1354 in almeno altri due riquadri.
PARETE ORIENTALE
Crocefissione - Adorazione dei Magi - Miracolo di Bolsena - S.Giorgio e la Principessa
Autore: Maestro della Crocefissione di San Giorgetto
“La grande composizione sulla parete orientale, con la notevolissima Crocifissione sovrastata a mo’
di cimasa dalle tre scenette frammentarie dell’Adorazione dei Magi, della Messa di San Gregorio
ovvero Miracolo di Bolsena* (soggetto che si presta a un ulteriore, più pregnante e circostanziato
livello di lettura, quale celebrazione della messa voluta appunto dai fondatori), e di San Giorgio e la
Principessa, altro non può essere che il corrispondente illustrato della testé riportata epigrafe di
fondazione della messa in onore di San Giorgio, santo che apparirà poi costantemente quale
principale protettore dei cavalieri che qui avevano eletto la propria sepoltura, nei numerosi riquadri
votivi che per circa due decenni vennero dipinti uno dopo l’altro.
La data 1353 (**) andrà dunque assunta come anno di esecuzione della Crocifissione, capitale
espressione figurativa in ambito veronese, che prelude alla prossima attività di Turone prima e di
Altichiero poi.
Non certo questa la sede per dibattere approfonditamente le innumerevoli questioni filologiche che
coinvolgono la vasta produzione pittorica veronese verso la metà del secolo, che gravita
indubbiamente attorno al “Maestro della Crocifissione” in San Giorgetto: senz’altro un artista locale,
che mette a frutto la lezione appresa nei cantieri veronesi ( penso soprattutto al Maestro delle Storie
di San Francesco in San Fermo e al Maestro del Giudizio universale in Santa Anastasia). Tale
interessantissimo frescante e il gruppo di opere probabilmente uscite dalla sua bottega, o comunque
dalla sua cerchia, andranno considerate dei precedenti rispetto a Turone; si dovrà dunque ribaltare la
posizione della Cuppini, che assegna la Crocifissione ad uno “pseudo Turone”, un pedissequo
seguace che non si solleva dal livello di volonteroso artigiano”.
da Enrica Cozzi
in LA PITTURA NEL VENETO- IL TRECENTO
Electa 1992
(*) Nel 1263 Pietro da Praga, un sacerdote boemo in pellegrinaggio verso Roma, dubitò della presenza
di Cristo nell’ostia mentre celebrava messa a Bolsena. Dall’ostia prese a sgorgare sangue, che macchiò
il corporale e le pietre dell’altare. Il papa Urbano IV, che si trovava ad Orvieto, fece portare in
processione al Duomo di questa città il corporale macchiato ed istituì, per ricordare questo prodigioso
evento, la festa del Corpus Domini, il 19 giugno.
(**) La Cozzi legge nell’iscrizione 1353, ma sembra più giusto vedere 1354 come dice Gerola, che è
anche l’anno della rivolta di Fregnano e, secondo le cronache, dell’arrivo dei cavalieri tedeschi. Se
avesse ragione la Cozzi significherebbe che questi erano già al servizio di Cangrande II.
2- Crocefissione - Adorazione dei Magi - Miracolo di Bolsena - S.Giorgio e la Principessa.
I RIQUADRI VOTIVI
Le chiese di Verona, S.Zeno in particolare, sono in quell’epoca delle “gallerie di riquadri votivi”
(Francesca Flores D’Arcais). Scrive E.M. Scherer (in La pittura nel Veneto, il 400) che a Verona “i
grandi cicli religiosi sembrano assenti e le decorazioni profane, che pure esistevano, oggi sono
scomparse”. “In questo periodo (seconda metà del ‘300) il bisogno di immagini sembra accontentarsi
dell’affresco a carattere votivo” (...) “L’unificazione stilistica e spaziale è l’ultima preoccupazione
degli artisti. Le immagini coabitano e si sovrappongono sullo stesso lembo di parete nella più
spensierata anarchia”.
2- Riquadro votivo raffigurante la presentazione del cavaliere alla Madonna.
A San Giorgetto “meritano specialissimo studio sei riquadri del terzo quarto del ‘300 (...) Ogni
riquadro consta di due zone, scompartite da una fascia ove leggesi il nome del cavaliere sepolto probabilmente inumato in una sottostante tomba terragna- e la data della sua morte. Nella metà
superiore è raffigurata la Vergine, accompagnata o meno da un altro santo: mentre davanti al trono
di lei è inginocchiato il guerriero, vestito delle sue insegne gentilizie, presentato alla Madonna da
S.Giorgio e da una santa. La composizione inferiore, frammentaria dovunque, sembra rappresentare il
valletto, il cavallo coperto di gualdrappa e lo scudo del cavaliere appeso a un albero”. (Cfr. Gerola,
op. cit.)
PARETE NORD - PRIMA CAMPATA
Continuiamo a seguire il testo di Gerola:
“Prima figurazione della parete nord della prima campata. Di tutta la scena più non rilevasi che un
lembo del manto della Vergine; e parte dello scudo appeso in basso, di bianco al massacro di cervo
nero”. (Nel linguaggio dell’araldica massacro = teschio posto di fronte)
Seconda figurazione. Dietro alla Madonna trovasi S.Cristoforo. Lo scudo è di nero alla banda gialla
accompagnata da due cotisse bianche. Dal cimiero del cavaliere sporgono due corna di bufalo. Della
epigrafe rimane soltanto: HIC ; IACET....NS....LIIII
1354
Terza figurazione. Dietro alla Madonna è effigiato S.Pietro martire. Lo stemma di rosso incappato di
bianco è ripetuto non soltanto nella cotta, nel mantelletto dello scudo, nel cimiero, nella gualdrappa e
nello scudo appeso all’albero, ma replicato altresì, alternato col cimiero, intorno alla cornice del
dipinto. Della leggenda si rileva appena +ANNO.DNI.MCCC LIIII.DIE.UNDECIMO. M...PHIRT 11
marzo o maggio 1354
Se la data di morte è realmente il marzo 1354, ne consegue che egli -e forse qualcun altro dei suoi
compagni- morì e fu sepolto in San Giorgetto prima ancora che fosse dai suoi commilitoni fondata la
messa perpetua. In tale caso la presenza di quei morti nel sacro recinto avrebbe costituito appunto il
primo incitamento per l’atto pietoso della fondazione stessa”.
Secondo E.Cozzi: “La mano dello stesso frescante (Maestro della Crocefissione) va riconosciuta nei
due pannelli accostati sulla parete nord, raffiguranti la Madonna in trono col Bambino,
accompagnata ai lati da san Giorgio che intercede per il cavaliere inginocchiato e orante e da altri
due santi, sotto ai quali è stata letta la data 1354”.
L’affresco staccato con Madonna con Bambino proviene “dai vicini chiostri di S.Anastasia”.
PARETE SUD - PRIMA CAMPATA
Scrive il Gerola: “Prima figurazione della parete sud della prima campata. Di tutta la
rappresentazione resta solo una parte della figura di S. Giorgio e l’elmo ed il cimiero del devoto,
recante la rosa rossa di cinque petali in campo bianco. Siccome poi dell’epigrafe si rileva tuttora la
parola FEBRIARII, è lecito identificarla con quella già letta dal Maffei: Hic iacet dns. Churadus
dictus Pisutran de Frichenee MCC .LV . XII februarii”.
Cozzi: “Potrebbe essere suo ( del Maestro della Crocefissione) anche il riquadro frammentario sulla
parete sud, di cui è rimasta solo la figura di San Giorgio (verosimilmente databile 1355)”.
Gerola: “Seconda figurazione nella parete sud della prima campata. La santa è specificata come Santa
Caterina; e dietro al trono della Madonna figura S.Cristoforo. Lo stemma dev’essere partito di rosso
alla pianta di rosa bianca e di bianco alla pianta di rosa rossa. Tali figure sono ripetute in una specie
di mitra partita che costituisce il cimiero. L’iscrizione si legge quasi completa: HIC . IACET .
OLRIGO . . MURER . DE . GRONICHER . QUI . OBIIT. MCCCLVIII . DIE ...MARCII (Olrico Murer
di Gröningen, morto il 20 (*) marzo 1358”.
(*) completamento da Maffei, Le epigrafi veronesi in volgare, che per la data riporta però MCCCLXIII
Nessuna descrizione o commento sono finora stati rinvenuti sull’affresco, molto rovinato, con
Madonna col Bambino, santa e committente a destra ed angelo a sinistra, che non fa parte della serie
dei cavalieri.
CONTROFACCIATA
Il riquadro presente sulla sinistra entrando dalla porta, con l’epigrafe che lesse Giarola “HIC IACET
E...AINO MONZENER ANO DNI MCCCLV” (Monzener 1355) e con “l’arma costituita da un
artiglio verde in campo bianco”, fa ancora parte della serie votiva dei cavalieri tedeschi.
I due riquadri accostati sulla destra fecero molto discutere gli storici veronesi. “Un guerriero vedesi
genuflesso nei due affreschi di ponente che portano la contrastata firma del pittore Bartolomeo Baili
(...) Ma per ascrivere quei committenti alla nazione tedesca manca ogni più sicura ragione” scrive
sempre Gerola nel citato saggio del 1912 sui cavalieri tedeschi. E lo stesso Gerola qualche anno prima
( Questioni storiche d’arte veronese, in Madonna Verona 1908) aveva sostenuto che la firma di
Bartolomeo Badile era un falso del XVIII secolo.
La Sandberg Vavalà ( La pittura veronese del ‘300 e del primo ‘400, 1926), riconosciuta l’identità di
mano dei due riquadri, inseriti tra l’altro in un’unica cornice e quindi eseguiti contemporaneamente,
ritenne ingiustificate le riserve sulla firma ed assegnò i riquadri a Bartolomeo, un pittore documentato
tra il 1362 e il 1389, da lei ritenuto scolaro di Altichiero.
Secondo Enrico Maria Guzzo (Per Giovanni Badile e una rilettura di alcuni fatti della pittura goticointernazionale a Verona, 1989) la questione si complica: i due affreschi sono caratterizzati “da una
precipua verve che distacca e isola il loro autore dalla schiera dei tanti anonimi seguaci veronesi di
Altichiero. Ammesso però che essi siano opera del solo Bartolomeo”. Egli vede nel San Giorgio del
riquadro firmato sulla destra un tratto troppo “cortese” per un pittore del 1370-80, e nel manto della
Madonna una “morbidità chiaroscurale e plastica” che anticipa il nipote Giovanni.
“I dipinti tradiscono l’accostamento di due mani diverse, una di formazione più arcaica, l’altra, che
potrebbe ben essere quella di Giovanni Badile esordiente, aggiornata sulle novità lombarde
(Michelino da Besozzo) del primo ‘400”. Questa ipotesi richiede qualche spostamento di datazione,
con Bartolomeo, documentato solo fino al 1389, che opera ancora fino all’inizio del ‘400.
Al di là della polemica sull’autenticità delle firme di Giovanni e Bartolomeo Badile, la ricostruzione
delle tappe della scoperta di questa famiglia di pittori veronesi, fatta da Gerola, è comunque
interessante per capire le difficoltà che gli storici possono incontrare, in anni in cui a dipinti senza
nome si contrappongono documenti su pittori senza dipinti.
Nel XVIII secolo si conosce solo il nome di Antonio Badile, maestro e suocero di Paolo Veronese.
Bartolomeo Campagnola, parroco di Santa Cecilia (chiesa a poche decine di metri da Santa Anastasia e
San Giorgetto), scopre nell’archivio parrocchiale nomi e notizie di altri, più vecchi del Badile, e ne
scrive nelle sue postille all’opera di Dal Pozzo (Le vite dei pittori veronesi). Poco dopo si hanno
notizie anche di opere firmate.
Nel 1749 Biancolini, su segnalazione di Gianbettino Cignaroli, scopre e descrive una Madonna con
Bambino, dipinta sulla parete sinistra di S.Pietro Martire sotto un tabernacolo all’antica tra i santi
Antonio e Giovanni Battista, affresco firmato Ioannes Baili, “cognome scritto col dialetto nostro”. Poi,
nella stessa chiesa, una tavola divisa in più parti all’antica (il Polittico dell’Aquila, ora a
Castelvecchio), ancora firmata Iohannes Baili.
Da ultimo Zannandreis (1831?) parla della firma di Bartolomeus Baili sotto il nostro affresco, contiguo
“alla porta maggiore, in cui era figurata Maria Vergine (...) ed un guerriero genuflesso (...) il qual
soggiacque alla fatal sorte delle altre pitture ch’erano in quella chiesa” (cioè all’imbiancatura
dell’inizio ‘800) “ Il professor Dalla Rosa vide quest’opera quando esisteva” (ma non ne parla nel suo
Catastico). Finalmente il dipinto fu riportato alla luce, con la firma che ancora si legge.
Non si sapeva niente di questo Bartolomeo ( si conoscevano altri Badile con lo stesso nome, un figlio
di Giovanni, nato nel 1414, e un figlio di Antonio, morto nel 1545) finché non si trovò citato in un
documento del 1362 un “magistro Bartholomeo pintore”, figlio di un Nicolò, “qui Bailus dicebatur de
S.Heufemia”.
A Gerola sembrava strano che ci si fosse accorti delle firme dei due Badile solo dopo che l’arciprete
Campagnola ne aveva scoperto l’esistenza sui documenti. “La rivelazione di quella genealogia di
artisti fino allora affatto sconosciuti, e al tempo stesso il dispiacere di non poterne additare le opere,
possa aver agito da stimolo sugli scopritori, inducendoli a falsarne le firme su alcune opere”.
TURONE
“Tra le opere da ritenersi ormai definitivamente acquisite al catalogo di Turone, penso si debbano
sicuramente riconoscere (sulla scia in particolare di M.T. Cuppini, che ne ha curato i restauri più
recenti) due riquadri votivi in San Giorgetto, sulle pareti nord e sud (seconda campata), l’uno
dirimpetto all’altro, raffiguranti una MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNI e una
MADONNA COL BAMBINO TRA SANTA CATERINA E SANTO ACEFALO (non necessariamente
eseguiti contemporaneamente)”. (Enrica Cozzi)
Scarni sono i dati esistenti su quello che sembra essere stato il miglior pittore della generazione
prealtichieresca: il 23 ottobre 1356 è citato in un documento di locazione come “Turonum quondam
Maxii de Camenago diocexis mediolanensis”; testimone in un atto del 1360, nello stesso anno firma e
data il polittico della Trinità, oggi a Castelvecchio. Compare ancora in un documento del 1387.
Esiguo anche il catalogo, che ruota attorno al polittico del 1360. Tra le attribuzioni: la crocifissione
della lunetta del portale laterale di San Fermo e l’altra sul portale maggiore; una Madonna col Bambino
fra santi Giovanni Battista e Zeno in Santa Maria della Scala; alcuni corali miniati del 1368.
In gravi condizioni versa la MADONNA COL BAMBINO E UNA SANTA(?) in S.Pietro Martire, di
modi affini alle miniature del 1368, attribuitagli dalla Cuppini. A una data vicina al 1368 pare
convenire il frammentario affresco raffigurante la MADONNA COL BAMBINO E SANTA
CATERINA che la Cuppini, riferendola a Turone, assegnava a un tempo in cui l’artista “mostra
l’assimilazione dei modi di Altichiero”. ( da Mario Lucco, scheda Turone in La pittura nel Veneto - il
Trecento).
4-Madonna col bambino tra San Giovanni o una Santa e San Pietro Martire.
PARETE NORD - SECONDA CAMPATA
TRACCE DI UN AFFRESCO DI GIOVANNI BADILE?
Madonna con Bambino e San Giovanni
Autore: Turone (?)
Del frammento, quasi illeggibile, della parete nord, a destra della porta, Gerola (1912) aveva dato la
seguente descrizione:
“Un frammentario affresco della seconda metà del quattrocento, opera forse di un artista teutonico,
ripete lo stemma di qualche nuovo ignorato ospite d’oltralpe.Dell’affresco non resta più che qualche
frammento di architettura gotica assai ricca. Entro due tondi ai lati è replicato uno stemma di verde,
con un uomo andante verso sinistra, vestito di bianco e di mantello svolazzante nero, e tenente nella
destra una lunga canna, nell’altra una tazza (?)”.
Secondo Enrico Maria Guzzo potrebbe invece trattarsi di tracce di un affresco di Giovanni Badile
In una postilla alle Vite del Dal Pozzo Giambettino Cignaroli scriveva: “Ho rinvenuto traccia di
questo Giovanni (Badile) nella chiesa di S.Giorgio vicino a Santa Anastasia, prossima alla porta che
comunica interiormente col convento, sopra cui è espresso la Ss.ma Vergine d’aria graziosa e vestita
nobilmente, con il fanciullino in braccio similmente grazioso; dalle parti sono Sant’Antonio abate ed
un ritratto di persona inginocchiata. Sotto ai piedi della Vergine è scritto Joannes Baili. Questa
pittura più non sussiste...”
Ne parla anche il Biancolini (Supplementi alla Cronaca di Pier Zagata, 1749) “Benché omessa per
inavvertenza, pure non è da tacersi la scoperta fatta da chi ci diè cortesemente le notizie pittoriche
sopra accennate (Cignaroli), di una pittura a fresco dipinta da Giovanni Badile (...) nella chiesa di
San Giorgio, detta volgarmente San Pietro Martire, a cornu evangelii, si vede dipinta in aria molto
graziosa la Santissima Vergine, avente in braccio un altrettanto gentil fanciullino: sta ella assisa in un
tabernacolo all’antica, corteggiata da S.Antonio abate e S. Giovanni Battista e a lei dinanzi sta
inginocchiato nobile personaggio. (...) Ai piedi della Vergine è scritto Ioannes Baili, cognome scritto
col dialetto nostro”.
Di questo affresco “restano tracce solo di quella parte superiore che tanto aveva colpito il Cignaroli,
una fantasiosa architettura a padiglione letteralmente sepolta sotto riccioli e fogliami”.
( E.M. Guzzo “Per Giovanni Badile e una rilettura di alcuni fatti della pittura gotico-internazionale a
Verona” in LA CAPPELLA GUANTIERI - BPV 1989)
Allo strato pittorico trecentesco della Sacra conversazione di Turone si sovrappone il riquadro con il
San Pietro Martire di Giovanni Badile, databile tra il terzo e il quarto decennio del ‘400, dopo
l’assegnazione della chiesa alla Confraternita intitolata al santo domenicano (1424)
PARETE SUD - SECONDA CAMPATA
Madonna col Bambino, Santa Caterina e S.Antonio abate(?)
Autore: Turone
Madonna dell’Umiltà tra i santi Leonardo e Antonio Abate
attribuita a GIOVANNI BADILE
(vedere la scheda tratta da PISANELLO I LUOGHI DEL GOTICO INTERNAZIONALE NEL
VENETO -Electa 1996)
GIOVANNI BADILE
POLITTICO DELL’AQUILA (Museo di Castelvecchio)
“L’inventario dei dipinti demaniali del 1812 indica il convento di S.Tomaso Cantauriense come luogo
di provenienza del polittico; e lo ripetono poi il verbale dei restauri del 1857 ed il catalogo del 1865.
Ma, senza poter escludere il caso che l’ancona fosse passata a S. Tomaso immediatamente prima del
1812, certo si è che fino al 1803 almeno essa trovavasi nella chiesuola di S.Pietro Martire,
anticamente detta di S.Giorgio, in ciò concordando i dati del Cignaroli e del Dalla Rosa, che così la
descrive: “ Sopra la porta maggiore internamente vi è una tavola divisa in sette partimenti orizzontali
all’antica ed in ciascun d’essi vi è un santo o santa di buona proporzione e di pastoso colorito. La
Vergine poi nel mezzo è graziosissima e nello scalino della nicchia v’è pure il nome di Giovanni
Badile”. D’altra parte la figurazione nel polittico dei santi Pietro martire e Giorgio, ed anche lo
stemma straniero, costituiscono una riprova di tale sua provenienza”. G.Gerola in Madonna Verona
1908
Anche per quest’opera vedere la scheda tratta da PISANELLO I LUOGHI DEL GOTICO
INTERNAZIONALE NEL VENETO -Electa 1996
Per completare il discorso sui riquadri votivi sarebbero da aggiungere poche parole sul riquadro
Beccucci, nel transetto sinistro di S.Anastasia, non solo per l’affinità con quelli di San Giorgetto, ma
anche perché, restaurato e strappato, l’affresco fu esposto nella chiesetta prima di tornare al suo posto.
Si è cercato, per le insistenze di Carlo Furlan, di trascrivere la lapide murata sulla parete nord, datata
1408, in cui si parla di un magnanimus vir morto di peste. Gli eventuali esperti in epigrafia medievale
ci perdonino i probabilissimi errori.
HIC FORIS ATQE DOMICOSVLTOR ET ASPER IN ARMIS
ET ALIA MAGNANIMUS VIR FIDUS SANGUINE CLARUS
QUEM TELLUS ROMANA DEDIT VITUS O3 BEATUS
MILITIBUS DILECTUS ERAT SIC CIVIBUS EQUE
CORRIPIT HUNC PESTIS CUI BELLA HORRETIA CEDUNT
OSSA TEGIT MARMOR CONSCENDIT SPIRITUS ASTRA
MILLE QUADRIGENTIS ANNIS CURRENTIBUS OCTO
TERQ3 DECEM SEPTEMBRIS ERAT LVX SEXTA DECENA
LA CACCIA ALL’UNICORNO
ALLEGORIA DELL’ANNUNCIAZIONE
di Giovanni Maria Falconetto (1468-1535)
Scrive Giorgio Vasari che “ritornato Giovanmaria a Verona (da Roma) e non avendo occasione di
esercitare l’architettura, essendo la patria in travaglio per mutazione di stato, attese per allora alla
pittura e fece molte opere”. “Per certi signori tedeschi, consiglieri di Massimiliano imperatore, lavorò
a fresco in una facciata della chiesa piccola di S. Giorgio alcune cose della Scrittura, e vi ritrasse quei
due signori tedeschi grandi quanto il naturale, uno da una, e l’altro dall’altra parte ginocchioni”.
Dal 1509 la città era occupata dalle truppe dell’Imperatore Massimiliano; Venezia tentava invano di
riconquistarla e l’avrebbe riavuta solo nel 1517.
“Mentre che la città di Verona fu dell’Imperatore dipinse sopra tutti gl’edifizii publici l’armi Imperiali
et ebbe per ciò buona provisione et un privilegio dall’Imperatore, nel quale si vede che gli concesse
molte gratie et essentioni, si per lo suo servire nelle cose dell’arte, si anco perch’era uomo di molto
cuore, terribile e bravo con l’armi in mano: nel che poteva anco aspettarsi da lui valorosa e fedel
servitù, e massimamente tirandosi dietro, per lo gran credito che aveva presso i vicini, il concorso di
tutto il popolo che abitava il borgo di San Zeno, che è parte della città molto popolosa e nella quale
era nato e vi aveva preso moglie . Per questa cagione adunque, avendo il seguito di tutti quelli della
sua contrada, non era per altro nome nella città chiamato che il Rosso di S.Zeno”.
I due consiglieri dell’Imperatore Massimiliano, ritratti con le loro armi e i loro emblemi, sono Hans
Weineck (BAYNEC) e Kaspar Künigl (CHYNIGEL), come si può leggere nell’epigrafe.
L’affresco di S.Giorgetto è probabilmente l’ultima opera veronese del pittore, che, tornata la città ai
veneziani, preferì allontanarsi da Verona (andò a Trento con le truppe imperiali) per poi ritornare nel
Veneto, soprattutto a Padova, dove lavorò per Alvise Cornaro, prevalentemente come architetto.
Committenti tedeschi, anche le fonti iconografiche erano nordiche (“complicate” scrive Sergio
Marinelli - Il primo 500 a Verona in La pittura nel Veneto- Electa) e nordico anche lo stile “con una
prospettiva ancora gotica ed esiti di pittura sostanzialmente estranea alla tradizione italiana”.
“La Vergine, in un gotico hortus conclusus aggiornato con architetture romane secondo la nuova
tendenza archeologizzante, si presenta del tutto simile alla Dame à la licorne diffusa in arazzi francesi
e tedeschi: a soddisfazione del gusto certo ritardato dei committenti”. (G.Paolo Marchi, “Valore e
cortesia: l’immagine di Verona e della corte scaligere nella letteratura e nella memoria storica” in GLI
SCALIGERI 1988 Mondadori).
“Numerosi simboli mariologici, tra i quali la caccia all’unicorno, hortus conclusus, porta clausa e
Mosè davanti allo spineto ardente, dimostrano come Falconetto dovesse disporre di schemi tratti dal
mondo germanico, dove queste raffigurazioni erano molto diffuse: i paralleli più vicini si trovano in
un arazzo svizzero conservato a Zurigo”. (Gunter Schweikhart in L’Architettura a Verona nell’età
della Serenissima BPV 1988)
I committenti dovettero fornire al pittore indicazioni dettagliate e, probabilmente, un disegno o una
stampa. E Falconetto, si attenne al modello, limitandosi ad inserire, di suo, la città con anfiteatro sullo
sfondo; è sempre Vasari a dirci che “fu il primo che disegnasse teatri et anfiteatri e trovasse le piante
loro”, e “massimamente quel di Verona” ma andando anche a Pola d’Istria solamente per vedere e
disegnare i monumenti romani di quella città.
L’ANNUNCIAZIONE
In alto, sotto la scritta “Vade Fili mi Ait Rex” il Padre Eterno, tra nubi e teste di angeli, che emana i
raggi luminosi “su cui scivola il Bambino che sostiene una croce sulle spalle, preceduto da una
colomba che diffonde a sua volta i raggi o il soffio fecondante nell’orecchio destro di Maria”. Questa
descrizione di Ave Appiano (Le forme dell’immateriale, Angeli, Anime, Mostri - SEI 1996) si riferisce
a due dipinti di area tedesca, nei chiostri del duomo di Bressanone e dell’abazia di Novacella. “Sono
comunque rare le raffigurazioni che portano l’immagine del Bambino nel contesto dell’annunciazione
poiché la Chiesa ritenne un’eresia considerare e rappresentare il figlio di Dio in una scena prenatale
che avrebbe potuto offuscare il concetto teologico e divino dell’Incarnazione”.
Ancora l’Appiano ci fornisce un altro parallelo “nordico”, con la descrizione di un dipinto di Martin
Schongauer della fine del ‘400 (Chasse mystique, Retablo della chiesa dei Domenicani, Colmar) che si
attaglia perfettamente al nostro affresco: “Si tratta, di fatto, di un’annunciazione allegorizzata, in
quanto compaiono i signa dell’evento, tradotti nei termini fiabeschi della caccia mistica; sulla sinistra
l’angelo, il cacciatore armato di lancia, suona un corno (di indubbio richiamo sessuale) col quale
emette una musica che si traduce nelle parole trascritte sui filatteri (il flatus voci è musica e Verbo
insieme) e aizza i quattro cani (allegorie di misericordia, giustizia, pace e verità, seguendo le
iscrizioni) che a loro volta forzano il liocorno a rifugiarsi nel seno della Vergine”.
Anche a Verona l’arcangelo Gabriele ha in mano un’asta e il corno da cui escono le parole “Ave gratia
plena Dominus Tecu(m)” ; i cani recano le stesse scritte (Pax, Iustitia, Miserico(rdia). L’affresco
veronese condivide con l’altare di Colmar molti altri elementi: il giardino cinto da una muraglia, la
porta chiusa, la fontana sigillata (fons signatus), la verga d’Aronne, la sola fiorita delle dodici
sull’altare, il roveto ardente e il vello di Gedeone.
L’UNICORNO (liocorno)
“E’ una bestia di piccola taglia, che assomiglia a un capretto ed è particolarmente selvatico, ha al
centro della testa un corno e nessun cacciatore può impadronirsene, se non con lo stratagemma
seguente: il cacciatore conduce una ragazza vergine nella foresta, dove vive il liocorno e ve la lascia
sola. Quando il liocorno vede la fanciulla balza verso di lei e si rannicchia sul suo seno. E’ in questo
modo che si cattura il liocorno. Nostro Signore Gesù Cristo è un liocorno celeste di cui è stato detto “
E’ stato dolce come il figlio di liocorno”. E in un altro salmo “Il mio corno sarà elevato come quello
del liocorno”. E Zaccaria dice “Per noi egli ha alzato un corno di salvezza nella casa di Davide”: il
fatto che abbia un solo corno in mezzo alla fronte illustra la parola di Cristo “Mio Padre e io non
siamo che Uno”. La grande selvatichezza della bestia significa che niente, né i poteri, né le potenze,
né i troni né le sovranità, né l’inferno hanno potuto impadronirsi del potere di Dio. Il fatto che il
liocorno sia piccolo significa che il Cristo si è umiliato per noi con la sua Incarnazione”. dal Bestiario
Ashmole,cit. in Le Goff Immagini per un Medioevo (Laterza)
Impossibile fornire qui una bibliografia sull’unicorno. In Internet si trovano decine di siti, che in gran
parte ripetono le stesse informazioni; tra i più interessanti, ricco di immagini e di rimandi testuali, è da
segnalare questo (in francese): http://faidutti.free.fr/licornes/these/1Legende/legende.html
LE LITANIE DELLA VERGINE
“Rubus ardens incombustus, Vellus Gedeonis, Thronus Salomonis, Turris eburnea, Favus distillans,
Hortus conclusus, Fons signatus ecc.” Prima di essere codificate nelle Litanie di Loreto, nel 1587, le
medievali litanie (invocazioni) della Vergine erano diffuse in diverse versioni, ma sempre con la
medesima struttura: un’immagine, poetica e incisiva, seguita da un’invocazione corale (ora pro nobis).
Molte di queste immagini sono tratte dalla Bibbia:
IL GIARDINO E LA FONTE
La scena centrale si svolge all’interno di una cinta merlata, con la scritta “Hortus conclusus”. A sinistra
della Madonna la fontana “Fons Signatus”. Simboli della verginità di Maria, sono tratti dal Cantico dei
Cantici: “Un giardino chiuso, mia sorella, sposa, un giardino chiuso, una fonte sigillata” (signum è il
sigillo).
LE PORTE: AUREA, CLAUSA, EZECHIELIS
Nelle litanie Maria è “Porta (ianua nelle lauretane) coeli” e “Domus aurea” (casa d’oro). Nelle visioni
di Ezechiele si legge “Porta haec clausa erit, non aperietur” (questa porta rimarrà chiusa, non sarà
aperta). Sono ancora simboli della verginità della Madonna.
LE TORRI
Torre d’avorio e torre di Davide sono espressioni del Cantico dei cantici (“collum tuum sicut turris
eburnea”). Nell’affresco del Falconetto, sulla torre di sinistra, un frammento della scritta “LE
CLYPEI” cita il testo biblico “Sicut turris David collum tuum...mille clypei (scudi) pendent ex ea”. Nel
dipingere gli scudi il pittore avrà certamente guardato agli stemmi dei cavalieri tedeschi sulla parete di
fronte e alle aquile imperiali che andava dipingendo sui palazzi di Verona.
L’ARCA E IL TABERNACOLO
Sotto la torre d’avorio è dipinta l’Archa Domini, davanti un tabernacolo (?). Nelle litanie Maria è
invocata come “Foederis arca-tabernaculum”, arca o tabernacolo del patto.
STELLA JACOB
Maria è “stella mattutina”, ma la stella di Giacobbe, in alto alla destra del bambino, è il simbolo del
Messia. Infatti nella Bibbia, Numeri, 24.17 Quarto oracolo di Balaam “Una stella si muove da
Giacobbe, si alza uno scettro da Israele”.
ARONNE, GEDEONE E MOSÈ
In una sequenza,tratta da un prosario domenicano del XV secolo, utilizzato nel convento trentino di
S.Lorenzo ed ora conservato nella Biblioteca del Castello del Buonconsiglio di Trento, si trovano
riunite le immagini della verga di Aronne, del vello di Gedeone e del roveto ardente, dipinte da
Falconetto e che compaiono in altre raffigurazioni della caccia all’unicorno.
2a. Ave,veri Salominis
Mater,vellus Gedeonis
Cuius magi tribus donis
Laudant puerperium.
Ave,madre del vero Salomone,
vello di Gedeone:i magi
onorarono tuo figlio
con i loro tre doni.
3a.Ave,mater verbi summi,
maris portus,signum dumi,
aromatum virga fumi,
angelorum domina.
Ave,madre del verbo altissimo,
porto del mare,immagine del roveto,
virgulto profumato,
signora degli angeli.
(Gozzi-Repertori trascurati di canto liturgico)
LA VERGA DI ARONNE
I capi diedero a Mosè una verga per ciascuno, dodici verghe in tutto. Il giorno dopo la verga di Aronne
era fiorita, “mise germogli e si coprì di fiori, e produsse mandorle” (Numeri 17.23) “Lo si può
interpretare come una prefigurazione della croce, e la mandorla stessa fornisce un simbolo, in quanto
il suo guscio è amaro come la Passione, ma il frutto è dolce come la vittoria della Redenzione”. (E.H.
Gombrich IMMAGINI SIMBOLICHE Einaudi p.21)
IL VELLO DI GEDEONE
In basso, vicino alla cinta, il miles che indica la vergine è Gedeone, accompagnato dalla scritta
“descendit sicut pluvia in vellus”. Gedeone (Giudici 6-7) chiese a Dio un segno; stese per terra una
pelle di montone e al mattino la trovò bagnata di rugiada mentre il terreno era asciutto. Chiese di
invertire il segno, e al mattino seguente la pelle era asciutta sul terreno umido. Allora esortò gli Israeliti
alla battaglia.
La rugiada (o la pioggia) sul vello era intesa come una prefigurazione della fecondazione di Maria.
“Rorate coeli desuper,et nubes pluant iustum”: Stillate cieli dall’alto e le nubi facciano piovere il
Giusto” (Isaia). Ma Maria rimane vergine dopo il parto, come il vello rimasto asciutto mentre è bagnato
il terreno attorno.
IL ROVETO ARDENTE
A Mosè, pastore del gregge di Jetro (e Falconetto dipinge le pecore sullo sfondo), compare Dio sotto
forma di roveto ardente. Qui l’immagine di Dio è raffigurata sopra il cespuglio in fiamme, con la scritta
“Moises Moises noli accedere” e Mosè non si avvicina e si toglie i calzari.
Facciamo ancora ricorso ad una sequenza citata da Gozzi (Repertori ecc.), secondo versetto della
sequenza di Natale Ave,mundi spes,Maria:
Ave,virgo singularis,
que per rubum designaris
non passum incendia.
Ti saluto,vergine unica,
prefigurata nell ’immagine del roveto
che arde e non brucia.
La miracolosa verginità di Maria anche dopo il parto è simboleggiata nel roveto ardente che per
miracolo non si consuma.
IL BESTIARIO
Per comprendere le quattro immagini con animali, a parte i cervi sullo sfondo che il cacciatore e i cani
trascurano e che possiamo trascurare anche noi, dobbiamo far ricorso ai bestiari, i trattati medievali che
“ci danno il quadro delle conoscenze scientifiche del tempo e del significato etico-etimologico che si
attribuiva loro” (F. Cardini).
Il pellicano
È posto sulla sommità della fonte. Si ferisce il petto per nutrire i suoi piccoli: è figura di Cristo.
Il leone e i leoncini
Sulla sinistra, con la scritta “Leo valet rugitu i(n)cubare”. Nel Medioevo il leone rappresentava la
Resurrezione perché, secondo i bestiari, quando i suoi piccoli nascono, giacciono come morti per tre
giorni e la vita non entra in loro finché il padre non alita sul loro muso. (J Hall Dizionario dei soggetti e
dei simboli nell’arte - Longanesi).
Lo struzzo
Con la scritta “Si(c) strutio ova ex cubare valet”; davanti a lui due uova si stanno dischiudendo. Lo
struzzo che depone le uova nella sabbia e dimentica di covarle è l’immagine del peccatore che
dimentica i suoi doveri verso Dio (Cfr. J. Le Goff, La Civiltà e l’occidente, pag.357), ma l’uovo di
struzzo che si apre a nuova vita al solo tepore del sole è come l’anima del cristiano attratta dalla luce
divina (Ave Appiano).
L’orsa
A destra della fontana lecca il piccolo. La scritta dice “Ursa fetum ore figurat”
“Secondo Aristotele, seguito da Plinio, i piccoli dell' orso appena nati non hanno ancora forma
definitiva, ed è la madre a provvedere a ciò leccandoli accuratamente. L' amore materno dell' orsa che
forma i piccoli offre ottima materia di allegorizzazione: e difatti nel duecentesco Bestiario moralizzato
di Gubbio l' orsa che plasma i figli con la bocca diviene il simbolo della Chiesa che forma il cristiano
per mezzo del battesimo”.(Mostri, Belve, Animali, nell' immaginario Medioevale, di F. Cardini )
CACCIA ALLE CACCE
La caccia all’unicorno come allegoria dell’Annunciazione e simbolo di castità dovette diventare un
tema caro ai domenicani: molte analogie con l’altare di Colmar (vedi sopra) e con l’ affresco di San
Giorgetto si trovano in una lunetta dipinta nel chiostro della chiesa dei domenicani di Bolzano, di
grande interesse perché collocata nell’area di provenienza dei committenti di Falconetto.
Recenti restauri hanno messo in luce un’altra caccia mistica nella parrocchiale di Fiera di Primiero.
In Internet si può vedere riprodotto un arazzo renano del 1480, conservato a Karlsruhe, nel quale si
complica ulteriormente l’allegoria con l’introduzione del cacciatore (Adamo) che uccide l’unicorno e
di Eva che ne raccoglie il sangue in una coppa.
Un “hortus conclusus” con la vergine Maria, l’unicorno, l’ angelo con corno e cani ed altri elementi si
vede in un arazzo del 1500, conservato al Bayerisces-Nationalmuseum. Infine una incisione di Ulrich
Pinder, Norimberga 1505, con caccia mistica, cani, angelo cacciatore, torre, fontana e altare di Aronne
si può trovare nel sito http://perso.club-internet.fr/nicus/Licorne1.htm.
SECONDA POSSIBILE INTERPRETAZIONE
DELL’AFFRESCO
DI GIOVAN MARIA FALCONETTO
CON NOTIZIE
SUI COMMITTENTI
E SUI CAVALIERI BRANDEBURGHESI
1 L’ENIGMA DEL FALCONE
Sappiamo che la grande allegoria dell’Annunciazione fu commissionata al Falconetto (ma lui si firma
Falcone) da due “signori tedeschi, consiglieri al seguito dell’imperatore Massimiliano” (Vasari), ne
conosciamo i nomi e le fattezze ma ignoriamo cosa li abbia spinti a tale decisione.
Perché finanziare un’opera così impegnativa in una città lontana dalla loro terra d’origine? Perché a
S.Giorgetto? Perché hanno chiesto all’artista l’illustrazione di temi tanto complessi o, in altre parole,
qual’è il significato ultimo di una composizione così ricca di simbologie?
Trovare la risposta a questi quesiti può forse aiutarci a comprendere meglio la storia ed il significato di
questa piccola chiesa nel contesto artistico, politico e culturale di Verona…
2 LA CACCIA MISTICA
Con questo nome si fa riferimento ad un tema ricorrente presente in molte opere (affreschi, arazzi,
medaglie ecc.) costituito dalla presenza dell’angelo annunciante in guisa di cacciatore, preceduto da
cani ed attrezzato di lancia e corno; Maria si trova in un hortus conclusus, sul suo grembo si adagia un
unicorno che, si ritiene, è la preda dell’azione di caccia.
La diffusione delle cacce interessa soprattutto l’area centro-europea e dal punto di vista temporale si
colloca tra il 1400 e il 1500.
Tale interpretazione “venatoria” dell’affresco di Falconetto (ma simili considerazioni valgono anche
per altre “cacce” prese in considerazione) è senza dubbio la lettura più immediata della composizione,
ma ci pone almeno tre ordini di problemi.
Il più evidente è quello compositivo: se il tema centrale è la caccia, perché l’angelo cacciatore è laterale
e non occupa il centro dell’opera? Da notare che questa marginalità è ancora più accentuata nelle altre
composizioni che collocano al centro il binomio Vergine-unicorno e non Angelo cacciatore-unicorno.
Il secondo problema è quello didascalico interpretativo.
Sappiamo quanto fosse importante che un’opera comunicasse messaggi e contenuti.
Forme, colori, personaggi, allegorie e simboli costituivano un insieme narrativo per comunicare
significati ben precisi; il livello interpretativo era più o meno evidente a seconda del “pubblico” a cui ci
si rivolgeva, ma comunque decodificabile.
Ci sembra invece incomprensibile o quantomeno improbabile la figura dell’Arcangelo Gabriele che
attrezzato di lancia e corno aizza i suoi cani contro l’Unicorno che è simbolo della purezza di Maria o
della stessa figura di Cristo.
In una delle “cacce” analizzate, l’arazzo renano di Karlsruhe, vi è raffigurata in effetti l’esecuzione
della preda (il Cristo-unicorno), ma il carnefice è Adamo, con la complicità di Eva che ne raccoglie il
sangue; la responsabilità dell’eccidio è quindi degli uomini e non dell’angelo.
Infine il terzo problema, ma per quel che riguarda la nostra opera è forse quello più importante, è la
possibilità di avere una lettura omogenea ed il più possibile completa.
Se isoliamo il quadro della caccia (cacciatore, cani, liocorno) non ci resta che un’insieme di simboli
prevalentemente mariani affastellati senza gerarchia o filo narrativo (Martinelli scrive di allegorie
“complicate”).
Accantoniamo quindi per ora l’azione venatoria, ed analizziamo l’opera del Falconetto partendo dalla
figura centrale: Maria nel momento in cui contemporaneamente riceve l’Annunciazione e
l’Incarnazione…
3 LA VERGINE MARIA (?)
La vergine che occupa il centro dell’affresco è senza dubbio parte dell’iconografia più diffusa
dell’annunciazione come la conosciamo dal Medioevo in poi, costituita dalla figura di Maria,
dall’angelo annunciante che pronuncia le parole di rito e dalla colomba-Spirito Santo.
Ma le analogie terminano qui, l’angelo è bardato come detto sopra, la Vergine è in luogo aperto, non
protetta da portici né da edicole (il vangelo di Luca colloca la scena nella casa a Nazareth).
Rare rappresentazioni di influenza bizantina si rifanno al Protovangelo di Giacomo collocando la
Vergine fuori casa ma vicino ad un pozzo intenta a riempire una brocca (iconografia dell’A –
www.Chiantimusei.it).
Ma la cosa più anomala è l’atteggiamento della Vergine stessa, il suo sguardo non è volto all’angelo
(attenzione, stupore) ma nemmeno al suolo (modestia, ubbidienza). La Maria del Falconetto guarda
l’unicorno accovacciato sul suo grembo, quasi come se il messaggio angelico non la riguardasse; anche
le sue fattezze sono inusuali, è una donna sensuale che esprime grazia ma anche forza, ha un incarnato
scuro ed una vistosa capigliatura ramata che le scende fino alla vita. Attorno a lei vi sono numerosi
simboli e personaggi che difficilmente possono essere ricondotti all’atto del divino annuncio a cui
(usando un linguaggio teatrale) rubano la scena.
In altre parole si può dire che l’Annunciazione è il contesto meramente formale in cui si colloca la
scena, anzi considerando la complessità allegorica e narrativa dell’affresco, sarebbe più esatto dire che
l’Annunciazione è un evento formale inserito in un contesto più articolato e ricco di significati.
4 L’AMATA
Se la figura femminile che rappresenta il cuore dell’opera è così lontana dall’iconografia mariana a chi
si è ispirato l’artista nel dipingerla? La risposta ci viene da un particolare marginale dal punto di vista
scenografico ma importante perché chiaramente voluto: la donna è seduta su un covone di grano. E’ un
indizio che ci mette sulla strada giusta: IL CANTICO DEI CANTICI (Ct).
In questo breve libro biblico che inneggia al rapporto tra due amanti-sposi (in seguito valuteremo i
significati allegorici) lo sposo si rivolge all’amata dicendo :
il tuo ventre [è] mucchio di grano (Ct.7.3).
Anche la lunga capigliatura rossa della donna trova la sua spiegazione:
la chioma del capo tuo è come la porpora,
un re è rimasto preso dai tuoi lunghi capelli (Ct.7.6).
Se rileggiamo la figura femminile pensando non all’iconografia della Vergine Maria ma alla
descrizione della bella e passionale Shulamita del Cantico tutto il personaggio acquista coerenza e
forza.
L’incarnato bruno:
non badate alla mia carnagione scura, mi ha abbronzata il sole (Ct.1.6);
lo sguardo ed il monile:
tu mi hai fatto impazzire col tuo sguardo, con una perla sola del tuo collo (Ct.4.9);
la plastica sensualità della posa:
le curve delle tue cosce sono lavoro della mano di un artista (Ct.7.2.).
5 “DICHIARAZIONI D’AMORE”
Se manteniamo il Cantico come chiave di lettura delle simbologie che circondano la sposa ci rendiamo
conto che tutta l’opera acquista un linguaggio omogeneo e perde quel senso di elencazione di
simbologie mariane di, appunto, “litania”.
L’area verde in cui siede la Shulamita è l’ambiente in cui essa vuole essere con il suo amato :
vieni mio diletto, andiamo alla campagna
...per osservare se ha gettato la vite,
se si sono aperti i fiori, se sono fioriti i melograni:
là ti darò i miei amori (Ct.7.12/13).
L’hortus conclusus, la fontana sigillata (fons signatus), la torre di David da cui pendono i mille scudi
(turris cum mille clipei), la torre d’avorio (turris eburnea) sono alcuni tra i tanti nomi con cui un
innamorato chiama la sua amata e nel testo sono legati tra loro da un unico filo narrativo che nasce da
un profondo sentimento d’amore:
Orto racchiuso, sorella mia, sposa,
sorgente d’acqua vergine, fontana suggellata.
I tuoi germogli un giardino di melagrane, coi frutti più deliziosi,
fiori …con tutti i più preziosi aromi (Ct.4.12) e ancora:
il tuo collo è come la torre di David, costruita come fortezza.
Vi sono appesi mille scudi, tutte armi d’eroi (Ct.4.4) e più avanti:
il tuo collo è come torre d’avorio (Ct.7.5)
Nel testo troviamo anche le parole che spinsero il Falconetto a dare forma di muro merlato alla
recinzione dell’hortus e la strana struttura mammellonare alle torri citate; sono pronunciate dalla sposa
nella propria descrizione:
io sono un muro e i miei seni sono torri! (Ct.8.10).
Le citazioni riconducibili a brani del Cantico in riferimento alla sposa sono anche esterne all’hortus, in
alto a sinistra si intravede un uccello appollaiato tra le rupi; all’inizio del dialogo lo sposo si rivolge
all’amata con queste parole:
O mia colomba che stai nei rifugi della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce (Ct2.14).
In basso sulla sinistra abbiamo una sorgente; possiamo individuarne con facilità il significato
allegorico, grazie ad un filatterio esplicativo dell’arazzo di Karlsruhe, opera già citata, gemella nella
composizione all’affresco di S.Giorgetto:
fontana di giardini, polla d’acque vive che scendono dal Libano (Ct.4.15),
un’ennesima dichiarazione d’amore dello sposo.
6 L’AMATO
Il Cantico ci narra di un intenso legame amoroso tra due amanti, se l’amata è al centro dell’azione
descrittiva dell’artista anche l’altro protagonista non può mancare.
Lo ritroviamo alla destra dell’hortus nelle sembianze di un condottiero israelita: Gedeone.
Anche in altre rappresentazioni esaminate dell’hortus conclusus ritroviamo la figura di un uomo
inginocchiato affiancato dal vello caprino su cui, secondo le scritture, la rugiada notturna cadde “sicut
pluvia” come segno della Grazia divina.
Proprio la rugiada è l’elemento unificante tra l’episodio biblico di Gedeone e la rappresentazione
dell’amato del Cantico.
All’inizio del quinto capitolo lo sposo chiama la donna amata dall’esterno e la prega di poter entrare
con queste parole:
Aprimi, sorella mia,
amica mia, colomba mia, perfetta mia,
perché il mio capo è pieno di rugiada
i miei riccioli delle gocce della notte (Ct.5.2).
Lo sposo, bagnato dalla divina rugiada notturna (come il vello), la supplica dall’esterno del muro, che
protegge il riposo della donna, per richiamare la sua attenzione
“il mio diletto introdusse la mano nella fessura” (Ct.5.4).
Questa è la scena “fotografata” dal Falconetto: l’uomo in ginocchio allunga la mano verso il muro che
lo divide dall’amata. Rifiutato se ne va, e dalla descrizione che la sposa ne fa nella sua tardiva e
disperata ricerca l’artista trae ispirazione per la sua rappresentazione:
L’amato mio è bianco e rosso, insigne tra mille e mille.
Il suo capo è oro, oro puro;
..le sue mani globi d’oro, adorni di gemme di Tarsis,
il suo ventre, avorio lavorato,coperto di zaffiri.
Le sue gambe colonne di marmo
appoggiano su una base d’oro (Ct.5.10-15).
La sua bocca è dolcissima e tutto di lui è delizia.
Questo è il mio diletto e il mio amato,
o figlie di Gerusalemme.
Non vi è da aggiungere molto se non considerare la bravura dell’artista nel mostrarci nella figura del
miles non tanto un combattente quanto un uomo innamorato visto con gli occhi adoranti della sua
amata.
Un’ultima considerazione sulla stola rosa che copre la figura dell’uomo; questo colore corrisponde,
secondo la tradizione Salomonica, alla “forza inarrestabile dell’amore” (cfr. www.AurAweb.it), ma
qui si rischia di scivolare in interpretazioni cabalistiche od esoteriche.
Limitiamoci a considerare la stranezza di questo particolare e restiamo in un ambito storico,
iconografico e filologico.
7 L’UNICORNO
L’unicorno nella composizione di Falconetto è elemento centrale per collocazione, dimensione e
plasticità.
Per i motivi già detti non riteniamo che esso sia oggetto della battuta da parte dell’Angelo e dei cani;
tralasciamo anche la leggenda, (tratta dal Bestiario Ashmole 1511 della Bodlejan Library di Oxford),
per cui l’unico modo per catturarlo sia condurre una fanciulla vergine nella foresta e lasciarvela sola.
Ci sembra una storia molto simile a quella più attuale e nostrana, secondo la quale la statua di
Girolamo Fracastoro farà cadere il globo di pietra che regge in mano, sulla testa della prima donna
onesta che passerà sotto l’arco di via Fogge; forse il nostro cacciatore di unicorni sta ancora cercando,
come il buon Fracastoro, la fanciulla idonea.
A parte gli scherzi, l’unicorno è senza dubbio simbolo di purezza, cosi come nelle scritture Cristo è un
liocorno celeste di cui è stato detto “è stato dolce come il figlio di liocorno”.
Ma anche in questo caso il Cantico ci fornisce la giusta chiave di lettura. Lo sposo, l’amato, viene
invocato e descritto dall’innamorata in diverse forme, quella più poetica (e più profetica) è quando essa
si esprime con queste parole:
Un rumore! E’il mio amato!
Eccolo che viene
A salti per i monti
A sbalzi per i colli
Il mio amato è simile ad una gazzella
O ad un capriolo (Ct.2.8)
Più avanti, spinta dal desiderio l’innamorata usa la stessa immagine;
Il mio amato e’ mio ed io sono sua,
…Prima che soffi il vento della sera
E si allunghino le ombre, ritorna amato mio
Come una gazzella o un capriolo
Sopra il monte degli aromi. (Ct.2.17)
Sono parole che esprimono struggimento, desiderio e amore. Falconetto e gli altri artisti che hanno
prodotto rappresentazioni del Cantico le hanno tradotte con grande efficacia, evocando la figura
dell’unicorno che si stringe all’amata con trasporto, ricambiato con gesti e sguardi amorosi.
Nell’iconografia storica l’unicorno è descritto quasi con le stesse parole usate dalla Sposa (simile a
capriolo) e nelle Sacre Scritture la sua immagine è ricorrente con altissimi significati; l’accostamento di
tale animale sacro alla figura dello Sposo è quasi immediato.
Nella figura della gazzella/capriolo non abbiamo solo l’allegoria più poetica e struggente del rapporto
tra gli innamorati del Cantico, ma anche quella più drammatica e profetica: infatti il libro si conclude
improvvisamente con una supplica da parte dell’amata affinché lui fugga lontano.
Come avesse intuito il pericolo e l’avvicinarsi del sacrificio, dopo averlo tanto desiderato e chiamato
lei gli chiede di allontanarsi velocemente:
Fuggi amato mio! Sii come gazzella o capriolo,
fuggi sul monte degli aromi!
Non ci stiamo allontanando dal nostro affresco, ma quest’ultima parte ci permette di introdurre qualche
riflessione sul Cantico utile per decodificare l’opera nella sua completezza.
8 IL CANTICO O I CANTICI DEI CANTICI?
Il Cantico dei Cantici è un libro relativamente breve; è composto da 117 versetti raccolti in otto
capitoli, tuttavia, tra tutti i libri della Bibbia, è uno dei testi più discussi
Già S.Agostino affermava che il Cantico è un enigma (Serm.46.35)
L’inserimento del Cantico tra le Sacre Scritture avvenne grazie all’autorità di Rabbi Aqiva che alla fine
del I sec.D.C. arrivò a sentenziare:
il mondo intero non ha tanto valore come il giorno in cui fu dato ad Israele il Cantico dei Cantici
( Mishnà, Jadajim3,5).
L’autore, come declamato nel primo versetto, è Salomone; la sua struttura narrativa è semplice e
poetica. Si tratta di un dialogo tra due amanti che, con alcune figure sullo sfondo (le figlie di
Gerusalemme, Salomone e il suo corteo) si cercano, si lasciano e si ritrovano in un crescendo di
dichiarazioni amorose, passionali e struggenti.
L’interpretazione rabbinica vede nel Cantico la relazione d’alleanza e d’amore tra Dio (lo Sposo) ed il
popolo d’Israele (la Sposa).
Nell’interpretazione cristiana lo Sposo si identifica con il Cristo. La Sposa, secondo i poderosi
commenti di Ippolito e Origene (II-IVsec. d.C.), rappresenta la Chiesa e la Cristianità; in seguito, con
Ambrogio ( IV sec. d.C.), viene identificata nella figura di Maria.
Nel XII secolo il Padre della Chiesa San Bernardo affiancò all’interpretazione mariana la visione
mistica che vede nella Sposa l’immagine della singola anima. (Cfr. “Interpretazioni al Cantico” di
Agnese Cini Tassinario).
Il grande Santo fece del Cantico dei Cantici la base allegorica su cui fondò l’ispirazione mistica della
propria fede, ben 86 suoi sermoni commentano ed analizzano i versi del Testo Sacro.
Egli “lo considerò come il libro della vera sapienza e lo studiò per molti anni. Il Cantico attraverso il
sul linguaggio esprime bene l’unità che esiste tra il monaco e Dio; attraverso il linguaggio dell’amore
umano, purificato tramite l’allegoria, il Cantico permette ai monaci non filosofi, cioè a tutti, di capire
il legame profondo che c’è tra l’anima–la Sposa e Dio–lo Sposo.
Dio per primo dona l’amore, l’uomo tramite l’ascensione mistica desidera raggiungerlo…La dottrina
di san Bernardo si può quindi definire come una mistica del desiderio.” (Cfr. Lacchini/Rivoltella –
L’avventura del pensiero-pp367/369).
Ci scusiamo per questa breve parentesi storico-esegetica, peraltro rozza e dilettantesca, ma riteniamo
importante, per proseguire il nostro sforzo interpretativo, comprendere che il Cantico, sul finire del
Medio Evo, non era solo un libro sacro oggetto di diverse e divergenti letture.
Esso infatti rappresentava, con l’opera di San Bernardo, il testo di riferimento di una delle due grandi
correnti di pensiero della Cristianità: il Misticismo Medioevale.
Profondi movimenti religiosi, culturali e politici hanno nel Misticismo le loro radici; il monachesimo,
le prime crociate, la costituzione degli Ordini Gerosolimitani sono solo alcuni degli effetti che esso
ebbe nella società europea.
Tornando al nostro affresco, cercheremo quindi di decodificare le numerose allegorie alla luce non solo
del Cantico in sé, ma anche sulla base dei commenti che ne fece Bernardo e, più in generale, della sua
visione teologica e dottrinale.
In fondo si tratta semplicemente di osservare l’opera con gli occhi di una persona della fine del Medio
Evo anzi, data la sua ambientazione e ispirazione mistica, non solo con gli occhi, ma anche con la
mente e soprattutto con il cuore.
Infatti ciò che si viene a comporre di fronte a noi è la rappresentazione dell’Unione Mistica dell’anima
con il Cristo, il nucleo centrale della teologia di Bernardo. La passione d’amore degli sposi del Cantico
è l’allegoria del percorso sofferto e felice del credente che ricerca Dio.
9 L’ANGELO CACCIATORE
Ritorniamo alla figura dell’angelo cacciatore considerata all’inizio.
Quale è il suo significato se non insegue l’unicorno? Quali sono le sue prede? Perchè i segugi hanno
quei nomi? Per comprendere questa allegoria non basta riferirsi al Cantico, ma ricercare una risposta
nei commenti ( Sermones) che ne fece San Bernardo.
Il Cantico fa un breve riferimento alla necessità di catturare animali selvatici dannosi; lo sposo
interrompe brevemente il dialogo con l’amata e lancia questa invocazione:
Catturate per noi le volpi! Le piccole volpi che guastano le vigne, e le nostre vigne sono in fiore.
(Ct.2.15).
Su questi brevi versi di significato oscuro il grande Abate di Chiaravalle sviluppa un poderoso lavoro
di interpretazione e analisi. Ben quattro sermoni sono dedicati a questo passo con la conclusione che
per l’uomo è vigna la sua vita, la sua mente, la sua coscienza; i fiori della vigna sono i novizi, [ che
] da poco son venuti, da poco si sono convertiti (Serm.63).
Le volpi sono le tentazioni ( Cfr. Serm.64), ma anche le eresie.
Ma come bisogna cacciare le volpi? Con quali mezzi? L’interpretazione di San Bernardo è chiara:
lo Sposo comanda non di sterminarle, o scacciarle, o ucciderle, ma di catturarle; bisogna tener
d’occhio queste spirituali e astute bestiole con ogni vigilanza e cautela, e così prenderle, cioè
comprenderle..(Serm.64)
Non vediamo le volpi nella scena di caccia, infatti la devastazione della vigna fa vedere che c’è stata
la volpe... ma un uomo non può scoprire di dove entri o di dove esca. Si vede l’effetto ma non
appare l’autore (Serm.65)
Non sempre le forze della Chiesa e degli uomini sapienti sono sufficienti a custodire e difendere le
vigne dall’invasione delle bestie ( Serm.63), può esserci una volpe scaltra che scandalizza la Chiesa,
che demolisce la vigna ( Serm.65).
Ecco quindi la supplica del grande mistico:
Prendetela voi per noi o Angeli santi. E’ molto astuta questa volpe, ..così piccola e sottile da
ingannare facilmente gli umani sguardi. Anche i vostri? Perciò sia rivolta a voi la parola dello
Sposo: catturate per noi le volpi! Fate dunque quanto vi è comandato: prendeteci questa volpe
così scaltra che già da tempo inseguiamo senza risultato (Serm.65).
Queste parole, data l’autorità di chi le pronuncia, la loro collocazione storica (a metà del XII sec.) e la
forza evocativa che esse contengono, possono essere la radice della figura iconografica delle “Cacce
mistiche”?
Si tratta di un’ipotesi impegnativa che meriterebbe un serio lavoro di approfondimento documentale.
10 I SEGUGI
Una conferma che l’allegoria dell’angelo cacciatore si ispiri al pensiero di San Bernardo viene dalle
raffigurazioni dei cani che lo accompagnano.
Il santo più volte raccomanda, come abbiamo già visto, che la caccia sia incruenta: si deve dire ben
chiaro che cosa siano in senso spirituale queste volpi… perchè sia comandato soprattutto di
prenderle e non di scacciarle o ucciderle (Serm.63), quindi se, secondo l’allegoria, intendiamo per
vigne le chiese, per volpi le eresie o piuttosto gli eretici stessi, il senso è semplice: gli eretici
vengano presi piuttosto che scacciati. Siano presi, dico, non con le armi, ma con gli argomenti,
con i quali vengano confutati i loro errori (Serm.64). Questo passaggio ci chiarisce perché i quattro
segugi siano la Verità, la Pace, la Misericordia e la Giustizia che sono, nel pensiero del Santo le quattro
fonti con cui Cristo disseta l’anima degli uomini.
Troviamo questi concetti nel sermone 96° (Le quattro fonti del Salvatore) e nel sermone 97° (Le
quattro fonti che sgorgano dal Paradiso spirituale); i nomi in latino usati dal Santo sono: Veritas,
Caritas, Sapientia, Virtus.
Nelle diverse “cacce” il numero e i nomi dei cani non sono sempre uguali, il primo varia da due a
quattro, soprattutto per esigenze di spazio (anche nel nostro affresco pur essendo in quattro solo tre
vengono identificati col nome); tra i nomi compare anche Amore, Castità, Umiltà.
Sono comunque sempre categorie virtuose e mai aggressive, più consone ad una amorevole e paziente
azione di convincimento che non ad una battuta di caccia.
Le stesse categorie sono citate da San Bernardo nelle “Lodi a Vergine Maria”, nel commentare le
profezie di giubilo della Sacra Scrittura riferite al giorno in cui il Messia si sarebbe incarnato in una
Vergine; queste le parole usate del Santo: in quel giorno in verità “i monti stillarono dolcezza e dai
colli colò latte e miele” e ad Elia attribuisce questa invocazione di gioia “la misericordia e la verità
andarono una incontro all’altra, la giustizia e la pace si sono baciate”(Lodi 1.1).
In questo contesto ai cani, seguiti dall’ Angelo con il corno, viene dato un ruolo di annunciatori
dell’evento divino.
11 LE CERVE E LE GAZZELLE
Sullo sfondo dell’affresco pascolano tranquille delle cerve o delle gazzelle in un ambiente naturale e
boscoso, tra prati e rocce. La loro partecipazione alle altre allegorie non è diretta, quasi fossero
semplici spettatori degli eventi rappresentati.
Nel Cantico questi animali, simboli di amore e fedeltà coniugale (Cfr. “Note al Cantico” di S.Byatt),
sono invocati due volte dallo sposo proprio con il ruolo di “testimoni”del suo amore.
Queste le sue parole:
Vi scongiuro figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve selvatiche:
non scuotete, non destate l’amata finché essa non lo voglia (Ct.2.7-3.5).
12 LA CITTA’
In alto a sinistra dell’affresco Falconetto ha dipinto una città.
In primo piano si stagliano i ruderi di un anfiteatro romano, considerato un richiamo da parte
dell’artista della sua Verona. Tale interpretazione non è convincente, in primo luogo il monumento
affrescato ha un ordine in più dell’Arena veronese, in secondo luogo non si capisce perché, se di
licenza artistica si tratta, il Falconetto, che conosciamo come profondo conoscitore dell’architettura
classica, si sia limitato a dipingere un rudere e non un anfiteatro romano nella sua completezza.
Ma soprattutto non è chiaro quale sia il significato della città nel contesto dell’Annunciazione.
Ancora è la lettura del Cantico che ci svela l’allegoria.
Il Libro Sacro infatti ci parla della Città. E’ il luogo del distacco, della perdizione, il luogo dove vaga
disperata la Sposa quando si allontana dall’amato e non sa più dove egli sia.
L’ho cercato ma non l’ho trovato.
Mi alzerò dunque e andrò in giro per la città; per le strade e per le piazze,
cercherò colui che l’anima mia ama: l’ho cercato ma non l’ho trovato.
Mi trovarono le guardie di ronda per la città:
“colui che l’anima mia ama, l’avete veduto?” (Ct.3.1-3).
Ma la città non è solo lontananza da Cristo-Sposo, ma anche il luogo in cui l’Anima-Sposa di Cristo
subisce violenza e persecuzione:
l’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto.
Mi trovarono le guardie di ronda per la città
Mi percossero, mi ferirono, mi strapparono le vesti le guardie delle mura (Ct.5.6-7).
Questi versi ci fanno capire il significato della città, l’artista vi ha raffigurato i luoghi fisici simboli
delle capitali religiose dove Cristo e il suo popolo hanno subito condanne e persecuzioni: il Tempio di
Gerusalemme, sede della religione ebraica e, ai tempi di Falconetto, di quella islamica è l’edificio
centrale con la cupola su una struttura ottagonale. Il Colosseo è l’allegoria degli dei pagani del passato
(è quindi un rudere) e delle persecuzioni contro i cristiani.
13 LA STELLA DI GIACOBBE
La stella di Giacobbe è posta dal Falconetto nella parte alta della lunetta e si staglia brillante sullo
sfondo azzurro del cielo. Nella visione allegorica di Bernardo questo astro è simbolo della Vergine,
troviamo questo concetto in un suo scritto giovanile:
Questo nome [ Maria ] tradotto significa “stella del mare”, e si adatta molto bene alla Vergine
Madre…perché come la sella emette il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorì il
Figlio senza lesione del suo corpo. E’ dunque lei quella nobile stella nata da Giacobbe, il cui
raggio illumina l’universo mondo, il cui splendore brilla nei cieli…(Lodi alla Vergine Madre
2.17).
14 IL VELLO, IL MOSE’, LA VERGA DI ARONNE
La figura di Mosè inginocchiato davanti a Dio che ha le sembianze di un roveto ardente si trova sulla
destra dell’affresco. Il Cantico ci parla del Fuoco divino paragonandolo all’amore:
tenace come Sceol è la passione,
le sue vampe, vampe di fuoco
le sue fiamme, fiamme divine.
Acque grandi non possono spegnere l’amore,
i fiumi non lo sommergono ( Ct.8.7 ).
Ma è ancora nelle “Lodi” che Bernardo lega tra loro tale miracolo con altri due eventi biblici a cui
attribuisce lo stesso significato profetico: la fioritura della verga di Aronne e la rugiada sul vello di
Gedeone di cui abbiamo già detto:
…la Vergine che concepisce Dio. ...Unico indubbiamente fu lo spirito dei Profeti, ed essi hanno
previsto e predetto la stessa cosa sia pure in modi diversi.
Ciò che venne mostrato a Mosè nel rovo e nel fuoco, ad Aronne nella verga e nel fiore, a Gedeone
nel vello e nella rugiada…Gabriele infine lo mostrò col suo saluto alla Vergine stessa (Lodi 2.11).
Le tre allegorie del Falconetto non sono quindi episodi biblici diversi e distinti, ma un’unica narrazione
della interpretazione mistica e mariana che il Padre della Chiesa aveva delle Sacre Scritture.
15 LE PORTE MONUMENTALI
Il muro dell’hortus è scandito da tre portali monumentali di fattura classicheggiante: due gemelli
simmetrici e laterali che ricordano gli archi trionfali romani ed uno centrale. La loro disposizione e
struttura è senz’altro frutto del gusto rinascimentale del Falconetto, il loro significato va cercato nelle
Sacre Scritture e nella visione mistico-mariana di Bernardo.
La “porta chiusa” e “la porta di Ezechiele” -questa porta rimarrà chiusa: non verrà aperta, nessuno
vi passerà (Ez 44.2)-, sono chiari simboli di verginità; anche la Porta Aurea allude al concepimento
della Vergine: secondo il protovangelo di Giacomo l’angelo stesso fissò alla Porta Aurea l’incontro tra
Anna e Gioacchino, affinché questa comunicasse allo sposo penitente di essere incinta di Maria.
Ma nel Cantico “la porta” ha la funzione di aprirsi allo Sposo: il mio amato bussa: ”aprimi sorella
mia” e viene segnata dal suo passaggio: aprii all’amato, le mie mani gocciolarono mirra, le mie dita
mirra liquida sulla maniglia (Ct.5.5).
Nella lettura di Bernardo la “porta” è Maria stessa, chiusa nella sua verginità agli uomini ma aperta a
Dio: il Figlio aprì miracolosamente per sé la porta segreta della tua fecondità (Lode3.4).
Il Santo esorta la Vergine ad aprirsi: Apri la tua intimità, o Vergine, apri il grembo, prepara l’utero
(Lodi 3.8).
16 L’ARCA DIVINA, IL VASO AUREO
Alle spalle della Sposa il Falconetto ha collocato, sulla sinistra, l’altare con la verga di Aronne
miracolosamente fiorita, di cui abbiamo già detto; sulla destra l’Arca dell’Alleanza, contenente,
secondo le scritture, le tavole della legge consegnate da Dio a Mosè sul Sinai, questa è riconoscibile
dalla scritta Arca Dom.ni.
Ai suoi piedi, in primo piano vediamo un recipiente d’oro, si tratta del Vaso Aureo (la scritta si
intravede appena) ricolmo della Manna Divina con cui il Signore sfamò il popolo ebraico durante la
traversata del deserto.
I tre oggetti sono collegati tra loro dal fatto che vennero riposti insieme nel Sancta Santorum, la sacra
cella che costituiva il cuore del Tempio di Salomone; essi rappresentavano la testimonianza della Sacra
Alleanza tra Dio e il suo Popolo, esempi tangibili dell’azione divina per guidare e sostenere il popolo
dei credenti.
Collocare questi tre simboli insieme, all’interno del recinto dell’hortus, significa affermare la presenza
e la volontà divina per quanto sta accadendo.
Questo vale sia per la raffigurazione formale dell’’Annunciazione che per quella allegorica dell’Unione
Mistica.
17 IL LEONE, LO STRUZZO, L’ORSA, IL PELLICANO
Il leone, presente sul lato sinistro con la scritta “Leo valet rugitu i(n)cubare”, nel Medioevo
rappresentava la Resurrezione perché, secondo i bestiari, quando i suoi piccoli nascono, giacciono
come morti per tre giorni e la vita non entra in loro sinché il padre, il terzo giorno, non alita sul loro
muso dandogli vita. (J Hall Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte - Longanesi).
Lo struzzo è raffigurato con la scritta “Si(c) strutio ova ex cubare valet” mentre davanti a lui due uova
si stanno dischiudendo. Lo struzzo che depone le uova nella sabbia e dimentica di covarle è l’immagine
del peccatore che dimentica i suoi doveri verso Dio (J. Le Goff, La Civiltà e l’occidente, pag.357), ma
l’uovo di struzzo che si apre a nuova vita al solo tepore del sole è come l’anima del cristiano attratta
dalla luce divina (Ave Appiano).
L’orsa è raffigurata, nell’affresco, a destra della fontana mentre lecca il piccolo. Sopra di lei appare la
scritta “Ursa fetum ore figurat”. “Secondo Aristotele, seguito da Plinio, i piccoli dell' orso appena nati
non hanno ancora forma definitiva, ed è la madre a provvedere a ciò leccandoli accuratamente. L'
amore materno dell' orsa che forma i piccoli offre ottima materia di allegorizzazione: e difatti nel
duecentesco Bestiario moralizzato di Gubbio l'orsa che plasma i figli con la bocca diviene il simbolo
della Chiesa che forma il cristiano per mezzo del battesimo” (Cfr. Mostri, Belve, Animali, nell'
immaginario Medioevale, di F. Cardini).
Infine il pellicano, posto in cima alla fonte, si ferisce il petto per nutrire i suoi piccoli (diventando
simbolo del supremo sacrificio di Cristo). In realtà, quando deve nutrire i suoi figli, egli curva il becco
verso il proprio petto in modo da prendere il cibo che trasporta nel sacco golare e porgerlo ai cuccioli.
Ma secondo il bestiario medievale il pellicano ama moltissimo i propri figli. Questi appena nati
colpiscono i genitori ferendoli, e di conseguenza gli adulti reagiscono uccidendoli. Passati 3 giorni la
madre si percuote il petto sino a ferirsi e porge il suo sangue ai piccoli che riescono a risvegliarsi. Lo
stesso ha fatto Gesù con gli uomini che lo hanno respinto: si è immolato versando il proprio sangue per
i peccati degli uomini.
18 I COMMITTENTI
Abbiamo già detto che il Vasari, scrivendo del Falconetto, cita i due cavalieri che hanno
commissionato l’affresco come “consiglieri” dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo.
L’epigrafe in calce, nel riportarci i loro nomi, ci conferma che si tratta di due “nobiles et generosi viri”
al seguito di “Massimilianus imperator”, e dedica l’opera alla gloria di Maria Vergine.
Osservando meglio le loro figure ci rendiamo conto che queste sono ben lontane dalle tradizionali
raffigurazioni dei committenti, solitamente di dimensioni ridotte, spesso a mezzo busto e marginali
rispetto all’insieme dell’opera.
Ci troviamo invece di fronte a due ritratti fortemente caratterizzati a figura intera, di dimensioni
persino più grandi dei personaggi dell’affresco: insomma due protagonisti, che, pur inginocchiati,
interagiscono con la narrazione dell’artista e la fanno propria. Sappiamo anche che il loro intervento
non si è limitato alla committenza, ma ha condizionato il Falconetto nella scelta dei temi e delle
allegorie così estranee alla sua formazione classicheggiante.
Tale scelta non è stata né casuale né superficiale, ma dimostra una profonda conoscenza degli elementi
più significativi del Cantico, dei commenti scritti su di questo da San Bernardo e, più in generale, della
sua opera e della sua visione mistica.
La conclusione è che per i nostri l’affresco non fosse un semplice atto di devozione per abbellire una
chiesa ma piuttosto una forte dichiarazione di fede, di appartenenza ad una precisa corrente teologica,
fatta pubblicamente attraverso la forma della rappresentazione artistica.
I loro stemmi araldici sono raffigurati sotto di loro e testimoniano indubbiamente l’appartenenza dei
nostri committenti a casate nobiliari.
Il fatto di citare apertamente la loro appartenenza al seguito dell’imperatore ci conferma che i due non
erano certo “al soldo” di Massimiliano ma facevano parte della cerchia più ristretta ed affidabile che
affiancò l’imperatore nelle sue campagne italiche.
Infine il farsi ritrarre in armi ci fa capire il loro ruolo non di diplomatici o civili ma di comandanti
militari.
Dunque due “combattenti” di un corpo scelto, di sicura fedeltà germanica e nel contempo pervasi da
una profonda religiosità di matrice mistico-bernardiana.
Avanziamo una fondata ipotesi: i due erano esponenti del potente Ordine dei Cavalieri Teutonici.
19 L’ORDINE TEUTONICO DI SANTA MARIA DI GERUSALEMME
Alcune verifiche confortano tale ipotesi: i Cavalieri Teutonici si erano costituiti pochi anni dopo i
Templari, ma condividevano con questi la stessa Regola, che la tradizione vuole dettata da San
Bernardo. Anch’essi erano monaci-guerrieri, la loro dottrina si ispirava alla concezione mistica del
grande Abate di Chiaravalle; ma nell’Ordine Teutonico una rigida norma precludeva l’accesso a
chiunque non fosse aristocratico e di lingua tedesca (Cfr. www.compaquila.com).
Federico II nel 1212 riformò l’Ordine, adeguandone gli statuti al modello ospitaliero per gli aspetti
religiosi ed al modello templare per gli aspetti bellici, da allora i Cavalieri Teutonici costituirono il
corpo più forte e fidato dell’esercito imperiale; cosa importante soprattutto in Italia, dove la forte
influenza papale e la ricchezza delle città italiane favoriva defezioni e cambi di campo (A. Gentile. I
Cavalieri Teutonici).
A differenza dei Templari, sciolti nel 1312, i Cavalieri Teutonici avevano mantenuto e rafforzato la
loro potenza anche dopo la definitiva perdita della Palestina, organizzando una serie di Crociate contro
i popoli pagani del nord-est europeo. All’apice della loro espansione essi arrivarono ad avere un vasto
territorio governato direttamente dall’Ordine lungo il Mar Baltico, con una presenza diffusa in tutta
l’area del Sacro Romano Impero.
In Italia punti di forza erano la Sicilia, la Puglia e la Val d’Adige; quest’ultima era la zona di
provenienza di Kaspar Kunigl, il committente sulla destra. Il castello della sua casata con lo stesso
stemma dell’affresco è ancora esistente in Tirolo.
Ma l’appartenenza dei nostri Kaspar e Hans all’Ordine Teutonico non si basa solo su motivazioni
storiche e dottrinali, ma anche sul loro abbigliamento militare; i Cavalieri Teutonici infatti erano
caratterizzati dalla pesantezza dell’armatura (sono stati chiamati i panzer del Medio Evo) e da grandi
piume nere che ne ornavano i cimieri (Cfr. www.compaquila.com).
Entrambi questi elementi sono presenti nelle raffigurazioni del Falconetto, che li dipinge letteralmente
coperti di ferro da capo a piedi e con un vistoso piumaggio bruno sugli elmi.
20 ALCUNE PRIME RISPOSTE
Questa ipotesi ci fornisce alcune prime risposte ai quesiti iniziali.
Nel primo decennio del ‘500 l’Europa vede nascere lo scisma luterano, la riforma protestante che porta
al distacco dalla Chiesa di Roma di gran parte delle popolazioni germaniche e, nel 1525, lo stesso
Ordine dei Cavalieri Teutonici subisce una drammatica scissione.
Da un lato il Gran Maestro dell’Ordine, Alberto di Brandeburgo, con le province prussiane e baltiche
aderisce alle idee di Lutero, stravolgendo le tradizioni dell’Ordine che aveva nella Vergine Maria la sua
Protettrice, e liquida il potere temporale dell’Ordine dichiarando feudi del Regno di Polonia i suoi vasti
possedimenti. Dall’altro i Teutonici delle altre province si ribellano, ripudiano Alberto come Gran
Maestro e, con la protezione degli Asburgo, confermano la loro fedeltà ai princípi fondatori
dell’Ordine e riorganizzano la loro azione su obiettivi ascetici ed ospedalieri. I cavalieri Teutonici
persero però gran parte del loro potere mantenendo una presenza importante solo in Tirolo (cfr.
www.informest.it).
Non deve stupire quindi che due importanti esponenti di tale organizzazione abbiano voluto intervenire
nel lacerante contrasto ideologico e dottrinale che investiva l’Ordine con la realizzazione di un’opera
per testimoniare la loro rinnovata adesione alla teologia fondante dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici:
la visione mistica e mariana di San Bernardo.
Anche la collocazione di tale “testimonianza” nella chiesa di San Giorgetto è quindi facilmente
comprensibile. Come sappiamo, 150 anni prima l’edificio era stato utilizzato dai cavalieri germanici
che costituivano “la guardia” di Cangrande II. Questi avevano trasformato la piccola chiesa, che si
trovava di fronte al palazzo dell’Aquila dove erano alloggiati, nella loro cappella esclusiva. Vi avevano
sepolto i loro morti ed avevano decorato le pareti con le loro insegne e con riquadri votivi riecheggianti
il linguaggio mistico-cavalleresco.
In altre parole i nostri committenti hanno individuato in San Giorgetto non solo le testimonianze di una
presenza storica della stessa loro provenienza, ma anche un contesto culturale omogeneo al messaggio
che, tramite Falconetto, hanno voluto comunicare.
Vogliamo dare solo un esempio esplicativo di tale omogeneità culturale. Se pensiamo a come si
presentava la chiesa e la sua decorazione pittorica alla fine del ‘300, dobbiamo immaginarci la lunga
serie di scudi stemmati e di cimieri che correva lungo la parte superiore di due pareti, sotto questa i
riquadri votivi ed inoltre, sotto ogni riquadro, un affresco con il cavallo completamente bardato, le
armi, lo scudo e lo scudiero del cavaliere sopra rappresentato: insomma l’insieme di tali
rappresentazioni facevano apparire San Giorgetto più un’armeria che una chiesa.
Ancora una volta è San Bernardo che ci fa capire che proprio questo era l’effetto voluto dai cavalieri
germanici custodi della chiesetta; nell’opera apologetica che lui fa della “nuova militia”, e costituita dai
monaci guerrieri, usa queste parole per descrivere i loro luoghi di culto: “quindi anche le pareti delle
loro chiese sono ornate, ma con le armi, non con le gemme; e i muri non sostengono vecchie
corone d’oro, ma scudi appesi tutto intorno, il luogo è pieno non di candelabri, vasi e incensori,
ma di selle,briglie e lance “( De laude nuova militia).
150 anni separano il ciclo degli affreschi votivi dalla “Caccia Mistica” di Falconetto: è diverso il
linguaggio artistico e la complessità allegorica, ma sono impressionanti le analogie figurative e
culturali.
21 I CAVALIERI “BRANDEBURGHESI”
Questo era il nome con cui venivano chiamati i cavalieri tedeschi che costituivano la scorta di
Cangrande II. Sappiamo che essi hanno avuto un ruolo importante nella sconfitta di Fregnano, nella
battaglia al Campo Marzio nel 1353, nei pressi della attuale Porta Vittoria. Qui Cangrande II riprese il
controllo della città e Fregnano, il fratellastro ribelle, morì annegando nell’Adige.
Alloggiati nel Palazzo dell’Aquila (dove ora sorge l’hotel Due Torri) essi fecero di San Giorgetto la
loro cappella, il loro cimitero ed in questa lasciarono i segni della loro presenza..
Dicevamo delle analogie tra gli affreschi trecenteschi e l’opera di Falconetto; infatti anche nei riquadri
votivi i committenti, completamente armati, privi solo del cimiero in segno di rispetto, sono ritratti
inginocchiati e, a mani giunte, si rivolgono alla Madonna in trono.
L’insieme della decorazione pittorica è influenzata dalla cultura mistica di San Bernardo e testimonia
dello sforzo del Santo nel trasformare la cultura cavalleresca laica e cortese nella nuova “militia Dei”.
Anche in questo caso è chiaro che non siamo di fronte a semplici cavalieri al soldo dello scaligero ma
ad una gerarchia militare che, almeno tra i comandanti, condivideva l’ideologia degli ordini dei Monaci
Guerrieri.
Sopra quello che era l’ingresso principale i nostri cavalieri si sono anche apertamente “firmati”,
dichiarando che questi (i cavalieri ritratti) sono i fondatori di una messa quotidiana in onore del loro
santo protettore, San Giorgio, e di tutti i Teutonici vivi e morti.
La scritta è datata 1354: ci sembra abbastanza evidente che quel “teutonici” sia da riferire non tanto ad
una nazionalità non ancora ben definita quanto piuttosto ad un preciso Ordine di Monaci Guerrieri che
si trovava a quei tempi all’apice della propria espansione.
Numerosi riferimenti storici confortano questa ipotesi; il ruolo affidato ai nostri cavalieri non era solo
la protezione di un principe italiano, ma quello ben più importante di tutelare sua moglie, che era la
figlia dell’imperatore tedesco Ludovico il Bavaro e, con la loro presenza armata, assicurare alla causa
imperiale la fedeltà di Verona, considerata la “porta” di collegamento tra l’area germanica e quella
italiana.
Inoltre nella prima metà del Trecento il Veneto è per l’Ordine dei Cavalieri Teutonici una regione di
importanza strategica: abbandonata la Terra Santa, non ancora definitiva la scelta di ricollocare le
crociate contro le popolazioni pagane baltiche, essi stabiliscono a Venezia la sede centrale dell’ordine,
nel tentativo di tornare in Palestina (cfr. www.civitaschristiana.it).
Abbiamo documenti storici della loro presenza a Padova e del loro radicamento in Tirolo e in
Valdadige, in questo contesto l’esistenza di un presidio dell’Ordine nella nostra città è molto probabile.
Che il Palazzo dell’Aquila altro non fosse che la Commenda veronese dell’Ordine dei Cavalieri
Teutonici ci viene suggerito anche dal nome: l’aquila era infatti uno stemma ricorrente tra i nobili
dell’Ordine ed un richiamo diretto alla fedeltà imperiale.

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