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Progetto_Paesaggio
Riabitare Paesaggi
Verso un principio di urbanità contemporanea:
paesaggi interstiziali da prodotto a risorsa
Chiara Toscani
Se un principio di urbanità è chiaramente leggibile all’interno della città consolidata
attraverso la costituzione di uno specifico rapporto tra spazio aperto e tessuto
costruito, in cui il primo è l’elemento di connessione e conformazione del secondo
attraverso strade, piazze, ecc., i quali erano i luoghi, dal carattere collettivo
riconoscibile e condivisibile, dove si svolgevano i rapporti sociali più importanti, oggi,
contrariamente nel paesaggio della città contemporanea questo viene meno, poiché
le stesse regole di connessione non sono più sufficienti a definire un principio
insediativo che non sia debole e marginale, risultato di un processo di accumulazione
e frammentazione.
La perdita di valore dello spazio aperto è infatti evidente, non solo nella costruzione di
grandi figure territoriali, ma soprattutto nella definizione di figure minori, che
dovrebbero invece comporre il sistema di connessione del tessuto urbano e di
conseguenza di un differente principio di urbanità.
Se da un lato è necessario porre l’accento su un’operazione di protezione dello
spazio agricolo residuale attraverso la ricostituzione di grandi figure a scala
territoriale, come baluardo di difesa verso l’espansione edilizia, dall’altro è necessario
ripensare a modalità differenti per ricomporre i frammenti di spazi a scala minore al
fine di creare una permeabilità diffusa molteplice, attraverso sia il ridisegno di luoghi
esistenti, che la progettazione di nuovi oggetti architettonici (residenziali o terziari) e dello spazio aperto
ad essi connesso.
Osservando all’interno di questa seconda categoria di spazi aperti è possibile ritrovare, anche nella
città consolidata, spazi aperti di differente natura: luoghi marginali o abbandonati, già da tempo definiti
come terrain vague da Ignasi de Sola Morales, in attesa di un nuovo indirizzo architettonico; tracciati
infrastrutturali sottoutilizzati; e spazi attivi del paesaggio ordinario, prodotto diretto della città diffusa,
quali parcheggi, spazi verdi generici, retri degli edifici, ecc..: spazi spazzatura, wasteful spaces, come li
definisce A.Berger, o junkspace1, secondo R.Koolhaas. Nonostante la diversità, ciò che li accumuna
non è solo la dimensione scalare, ma l’evidente presenza diffusiva e soprattutto il loro comune
carattere interstiziale, che da elemento di debolezza potrebbe divenire invece una risorsa attraverso cui
ripensare una rete territoriale di spazi aperti.
Questi spazi sono riconoscibili come luoghi ambivalenti e interstiziali, che inducono ad essere a
ripensati come luoghi adatti a sviluppare almeno in parte un nuovo principio di urbanità. Risorsa
spaziale, sia in un’ottica di un nuovo progetto di suolo, che ne ricostituisca i bordi e la superficie, sia
nella riconfigurazione di nuovi interventi, secondo logiche e pratiche compositive adatte.
Alcuni importanti contributi teorici hanno chiarito come la qualità di questi spazi aperti contemporanei
ruoti attorno al loro carattere ambivalente, sia dal punto spaziale e figurativo, in cui l’architettura non è
più oggetto distinto ma dispositivo di relazione con il paesaggio, che semantico nel rapporto tra privato
e pubblico, che temporale e sociale dell’uso.
Così R.Koolhaas, nel testo Immaginare il Nulla del 1985, dichiara che l’unica strategia possibile rimasta
all’architettura è quella di definire lo spazio aperto a dispetto di una condizione speculativa edilizia e
una congestione urbana che lascia poco margine agli architetti. Koolhaas, propone di attuare una
1
“Il post modernismo aggiunge una zona di assorbimento degli scontri, un poché virale che frattura e moltiplica la soglia infinita dell’esporre, un
cellophane peristaltico che è cruciale per ogni scambio commerciale” (R.Koolhaas, Junkspace, pag. 80)
“cultura della congestione invisibile”: “se l’edificato si sottrae ormai ad ogni controllo, conviene mirare a
padroneggiare il vuoto, accettare i dettami di una nuova estetica della città e di nuove attese. (…)
“Occorre piuttosto pensare ad un modo per conservare la densità senza ricorrere alla sostanza, e per
salvaguardare l’intensità senza ulteriori sovraccarichi architettonici” 2, identifica la possibilità di attuare
strategie spaziali che ribaltino il rapporto tra figura e sfondo, tra costruito e aperto.
D’altro canto non è più possibile identificare nel paesaggio contemporaneo lo spazio aperto attraverso
unicamente iI requisito di luogo pubblico;, si dovrà perciò riflettere sulla possibilità di immaginare nuovi
scenari urbani in cui non “non si potrà più seguire innanzitutto né una tradizionale distinzione tra
pubblico e privato, né una consueta occupazione del suolo ma una “urbanizzazione del privato”.
L’importanza di quest’ultimo (lo spazio pubblico) non consiste, di certo, nell’essere più o meno vasto,
quantitativamente dominante o protagonista simbolico, ma nel porre in relazione tra loro gli spazi privati
rendendoli a loro volta patrimonio collettivo. Conferire carattere urbano, pubblico agli edifici e ai luoghi
che senza sarebbero soltanto privati. Urbanizzare il privato, questo è il concetto: assorbirlo, cioè nella
sfera del pubblico.(…) La periferia delle città metropolitana, vero centro, paradossalmente, della vita
futura della città, sarà fatta di questi spazi che, senza retorica della rappresentatività formale,
diventeranno i luoghi di interesse comune. Questo è il compito dei progettisti pubblici nella moderna
progettazione della città fare di questi luoghi intermedi né pubblici né privati ma esattamente l’opposto,
spazia non sterili (…) Spazi di pertinenza ambigua sono oggi i più significativi nella vita sociale
quotidiana, in quanto diverse tribù urbane possono usarli e appropriarsene in modo variabile”3.
Infine i modi di abitare i territori e le città sono certamente mutati, diventa perciò cruciale riflettere sul
ruolo che alcune pratiche informali e partecipative possono suggerire rispetto sia al riuso dell’esistente,
che alla definizione di futuri sviluppi edilizi.
Infatti da un punto di vista sociologico, il termine interstizio ha un preciso significato “(…) fu utilizzato da
Karl Marx per qualificare quelle comunità di scambio che sfuggono al quadro dell’economia capitalista,
poiché sottratte alla legge del profitto: baratti vendite in perdita, produzioni autarchiche … L’interstizio è
uno spazio di relazioni umane che pur inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel
sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto a quelle in vigore nel sistema stesso”4.
Alcune interessanti azioni artistiche e di partecipazione, al cui interno possiamo anche includere le
sperimentazioni consolidate come lo shared-space, le comunity garden, fino ai park-ing days e alla
guerilla garden5, hanno messo in luce alcuni i principi figurativi e semantici utilissime per elaborare
nuove indicazioni sulla temporalità e spazialità degli spazi aperti contemporanei: “ (…) a minimum of
new actions, “the singualr practices” aforementioned, found with increasing frequency in today’s urban
enviroment. They reveal the existence of a world rich in inventive-modes lifestyles, reinvent our daily
lives, and reoccupy urban space with new uses. Walking, gardening, recycling, and playing underlie
thousands of actions that we can undertake. Walking means occupying urban world in an appropriate
manner, re-stablished social relationships. Gardening means caring for urban ground thinking about our
society’s waste. Recycling means taking possession of physical and social city in unexpected and
creative ways”6.
Queste pratiche progettuali e d’azione hanno tre grandi pregi: promuovere i cambiamenti sociali,
sensibilizzare circa i cambiamenti climatici, culturali e di valori ambientali e infine operare sulle azioni
dell’abitare il quotidiano. L’ambivalenza abitativa temporale e d’uso è strettamente connessa alla natura
stessa che questi spazi minuti assumono del tessuto edilizio contemporaneo, ossia la loro caratteristica
interstiziale. I progettisti dovranno quindi allenarsi, come auspica A.Berger nel suo manifesto
Drosscape, a pensare non solo a nuove modalità di riuso ma a strategie spaziali e gestionali che
tengano conto dell’inevitabile produzione e consumo di suolo, quanto della trasformazione di questi
spazi nel tempo.
Lo sguardo verso queste pratiche “informali”, dovrebbe quindi essere tradotta nel progetto secondo
alcune condizioni fondamentali che lo renda sostenibile, nel senso più ampio del termine (spaziale,
economico, sociale), grazie ad una spiccata intuizione spaziale, che ne riduca gli sprechi attivando più
paesaggi possibili, e ad una capacità temporale, che ne permetta l’adattabilità secondo diverse funzioni
rispetto ad più archi temporali differenti e ed esigenze sociali molteplici.
Due architetti, il primo appartenente alla generazione post CIAM e un altro contemporaneo, se pur con
linguaggi differenti, cultura, e periodo di attività completamente diverso, hanno interpretato in modo
2
(R.Koolhaas, Immaginare il nulla, in J.Lucan, R.Koolhaas, pag.156)
M. de Sola Morales, Città Tagliate, Lotus Quaderns.
4
N. Bourriaud, Estetica Relazionale, pag. 15.
5
E’ possibile includere queste azioni all’interno di ciò che è stato definito come Design Activism.
6
M.Zardini, A new urban take over, testo pubblicato in What we can do with the city, pag. 16.
3
impeccabile queste condizioni e potrebbe perciò essere utile ripercorrerne: A.Van Eyck e K.Sejima. La
riflessione di A.Van Eyck in un certo qual modo enfatizza le molteplici accezioni degli spazi intermedi,
come luogo di incontro di differenti scale urbane, di soglia tra spazio interno ed esterno, di dialogo tra
esigenze collettive e individuali. Infatti i suoi playgrounds all’interno della città formano una rete di
luoghi differenti, ma riconoscibili come un struttura unitaria all’interno della città. Questa ricchezza
compositiva è frutto di un processo che è il risultato di un controllo spaziale definito da Van Eyck (topdown), attraverso la disposizione di elementi costanti: la pavimentazione come superficie unitaria, la
vasca con la sabbia come landmark, che corrisponde sempre a figure geometriche semplici, volumi più
minuti, utilizzabili variabilmente come panche, forme per il gioco, ecc.., e infine aste ed archi metallici
spesso collocate ai bordi a delimitare lo spazio aperto. Nonostante questa modalità ricorra in ogni
processo compositivo, ogni playgrounds è in realtà differente a secondo delle condizioni del contesto
(ground-up) fisico e sociale. L’incontro di queste due condizioni diventa di per sé un processo
interstiziale, di equilibrio tra due condizioni, quella collettiva pubblica e quella individuale, quotidiana e
socialmente condivisa. E’ interessante notare come la ricerca di questa qualità relazionale possa
trovare un’affinità con alcune esperienze progettuali contemporanee molto lontane nel tempo e nello
spazio. Basti pensare alle opere di K. Sejima, la quale rivela, dietro una possibile erronea
interpretazione minimalista delle sue opere, una perseverante volontà di costruire luoghi in cui il
rapportarsi a se stessi, all’altro e all’ambiente. “Alcune delle sue opere architettoniche sono state
sbrigativamente considerate come esempi del minimalismo più radicale disegnate con espressioni
formali intenzionalmente limitate, che tuttavia non cercano il carattere contemplativo quanto una
dimensione pulsante fatta di luce, riflessi, segni e movimento. La leggerezza dell’involucro esterno, per
esempio nel Museo di arte contemporanea di Kanazawa, avvolge più contenitori e crea zone ambigue
invece di demarcare con precisione l’interno dall’esterno”7.
L’architettura di K. Sejima è come un parco, in cui più che la forma precisa delle cose è importante una
forma architettonica che permetta alle persone di svolgere molteplici attività, incontri programmati ma
anche accidentali, attraverso un’espressione compositiva che ricerca una condizione ambientale
definita da relazioni, attraverso un’architettura “trasparente” che ha un unico significato “gli edifici
offrono solo spunti minimi, sparsi in una voluta ambiguità che trasforma ogni individuo in un creatore”8.
Così K. Sejima sintetizza il suo obiettivo: “In un‘epoca in cui vari strumenti contribuiscono alla
mancanza di comunicazione fisica, è compito dell’architetto offrire spazi reali per una comunicazione
diretta tra persone”9. Si tratta di avere quindi una prospettiva più ampia, che comprenda i nuclei storici,
quanto le parti estese della città e il paesaggio agricolo ai margini, le infrastrutture di collegamento, gli
spazi di risulta, i bordi, i paesaggi ordinari connessi ai processi normativi, e che trasformi questi luoghi
punti d’incontro diffusi appartenenti alla dimensione del quotidiano. La questione dunque ruota attorno
alla traduzione di buone pratiche progettuali, che rispondano a queste caratteristiche innovative, e
all’identificazione sia di “protocolli di impulso dell’intensità urbana” 10 , che tengano conto di una
molteplice multidisciplinarietà quanto di una relazione partecipativa culturale, fisica e normativa.
Certamente ogni intervento di recupero e riuso e i nuovi indirizzi dovranno trovare una modalità
gestionale, comunicativa e fisica/materica che funga da anello mancante tra processi di
autoregolazione e interventi calati dall’alto. Buone pratiche che, come afferma F. Munoz, devono porre
nuovi indirizzi di cambiamento alla progettazione dello spazio pubblico: la permeabilità più che la loro
compattezza, che deve funzionare per prossimità, più per che contiguità, ed esprima intensità invece
che densità. Per orientarci attraverso la selezione di buone pratiche e lo studio di una gestione e
propulsione di queste, sembra interessante passare al setaccio alcune esperienze progettuali, alcune
prettamente contemporanee altre già rilevate, ma che alla luce di questi parametri posso essere utili,
attraverso una categorizzazione, che non intende imporre limiti ma ordine alla narrazione, attraverso
categorie d’uso e funzionali che si riferiscono strettamente alle azioni appartenenti al design activism,
ossia: walking, playing, gardening-recycling and dwelling.11
Walking, come prima azione di appropriazione del territorio (F.Careri), diventa la chiave di lettura e
indagine di una serie di progetti che hanno privilegiato questa condizione di movimento lento rispetto ad
altre. Così Cino Zucchi a Cerea reinterpreta il percorso del centro storico, descrivendo il movimento di
macchine e pedoni attraverso l’alternanza materica del pavimento, in pietra di porfido e trani. Pochi
elementi vegetali, alberi e frammenti di manti erbosi, identificano le aree di sosta, come una sorta di
7
F. Repishti, Oltre il giardino, Lotus 110, pag. 104.
F.Idenburg, Relations, pag. 57.
9
F.Idenburg, op.cit., pag. 49.
10
F.Moñoz, Dopo il modello Barcellona: sfide per lo spazio pubblico nel XXI, in RE_CYCLE, pag. 86.
11
T. Markussen, nel testo The disuptive aesthetics of design activism: Enacting design between art and politics, definisce questi come quattro
approcci d’uso principali che distinguono il del design activism.
8
pausa di uno spartito musicale. Ogni passaggio di stato o luogo rilevante è così descritto attraverso la
differente qualità materica di pietra, bianca e porfido, e blocchi in cotto.
Se Zucchi, Sejima (progetto per il centro storico di Salerno) e Ifdesign (Muro di sormano), operano
lavorando fondamentalmente sulla superficie del percorso, trattandola come foglio bianco su cui
narrare la quotidianità alla scala urbana (Zucchi), del paesaggio (Sejima e Ifdesign), lavorando con
elementi totalmente “minerali”, indagandone le differenti qualità materiche, Vogt Landscape architects,
nella Bahnhofplatz Munich, definisce lo spazio, antistante la stazione, con un bosco, il quale occupa
l’invaso urbano saturandolo e considerando non solo la superficie ma il volume vuoto. Il movimento
longitudinale del camminare si svolge attraverso una massa vegetale di differenti alberature, distinte
per fioritura e colore, in modo non solo da costituire un unico elemento di connessione, ma di volta in
volta un differente paesaggio a seconda delle stagioni. Il luogo così può rispecchiare la diversa natura e
tipologia dei passanti, lasciando allo stesso tempo una memoria mutevole, ma identitaria del luogo. La
stessa operazione se pure ad una scala più estesa è perseguita nel progetto di K.Jansen, Prag
Buolevard, la quale identifica anch’essa il percorso come spazio tridimensionale tra le cose, ma ne
ricostituisce un nuovo recinto interno, come un nuovo guscio, labile e trasparente, fatto a volte di recinti
di rete dove giocare e bacchette metalliche, disposte una accanto all’altra a costruire uno spazio
protetto per riposarsi, o a punteggiare con pali filiformi come sfilati dalla recinzione stessa la corsia di
passaggio delle biciclette. Il percorso diventa una sorta di sequenza di stanze, una sequenza di piazze
che induce al movimento e narra differenti paesaggi. Così D.Chipperfield interpreta lo stesso progetto
per Salerno attivando il percorso del centro storico attraverso l’accostamento di stanze all’aperto, che in
modo assolutamente naturale possono essere interpretate come percorso o moltitudine di giardini.
La città è costituita di infrastrutture ma anche nodi, se i percorsi e l’azione del camminare indicano di
per sé una percezione dello spazio in mutamento, l’azione del giocare, riposarsi, comprare, necessita di
altrettanti spazi, stanze aperte, che la risorsa temporale deve reinterpretare attraverso altre condizioni.
Il progetto di Caruso St John, Stortorgert, Kalmar, attraverso una sapiente eliminazione del superfluo,
permettere un uso quotidiano e l’ interpretazione dei luoghi in molteplici modi. La superficie dei percorsi
in cemento, rispetto alle grandi specchiature in pietra, funziona come una lieve traccia, quasi a volere
dare una direzione ma non imporre nulla. Così come la differente tessitura suggerisce differenti
possibili usi, senza riempire uno spazio già fortemente identificato dai fronti edilizi.
La stessa neutralità, la troviamo nella superficie della piazza progettata di Vogt Landscape architects,
Trafoplatz Baden, qui però la massa vegetale ne costituisce i bordi, divide e comprime lo spazio
interno, ma non lo chiude, lasciando una trasparenza e ambiguità tra interno ed esterno, che induce al
movimento. Infatti grazie alla superficie neutra della pavimentazione questo spazio può accogliere
differenti funzioni, teatro, mercato, riposo attesa, ecc..
All’opposto la piazza in spagna firmata dallo studio Peredes.pinos, porta all’estremo ogni componente
del progetto, la superficie accoglie un parcheggio, il mercato , il cinema all’aperto descrivendone in un
puzzle di elementi colorati le infinite combinazioni.
Allo stesso modo Topoteck disegna la piazza MarktparkPaltz, Berlin-Kopenick, controllando la funzione
del parcheggio, del mercato, del ristoro e del gioco attraverso la colorazione superficiale dell’asfalto. Il
colore di questa superficie si trasforma ed adatta a molteplici usi, rinnovando le potenzialità di uno
spazio di sosta per le auto spesso declassato e considerato funzione secondaria e di scarto del
progetto.
Nella proposta di D.Van Barkel Archtecture per Parking di Bat_yam in Israele, questo funge
indifferentemente da parcheggio per le auto e da parco, ripercorrendo in certo qual modo le orme del
noto progetto di Devigne e Dalnoky, nella fabbrica Thomson.
La funzione del gardening and re-cycling, è brillantemente rappresentata da due progetti, opposti per
strategia compositiva, il primo opera ridefinendo il tappeto interstiziale di un vuoto edilizio all’interno di
un tessuto costruito (Atelier Le balto) con un giardino in cui perdersi e giocare, un micro paesaggio che
richiama più un frammento agricolo che un parco urbano; il secondo di Vogt Landscape architects,
Campus and park a Postdam, è costituito da due giardini segreti di pini e betulle coltivati all’interno di
due recinti protetti, ma distinti all’interno delle due piazze opposte che li accolgono.
L’ultima funzione l’abitare, segna una condizione al limite con la costruzione dell’involucro
architettonico, ciò che interessa nella riflessione sullo spazio aperto è indagare questa condizione di
soglia, di bordo, che determina il carattere stesso dello spazio vuoto esterno.
Così il muro alla fondazione Querini Stampalia di Scarpa divide, ma al contempo costruisce uno spazio
di sosta, dello sguardo, includendo la fontana che percorre il giardino della fondazione stessa,
costruendo un’attesa e un’ interferenza tra un prima e un dopo, quasi insondabile ma presente. Nella
sala espositiva Storefront di S.Holl, lo stesso elemento murario muovendosi determina spazi urbani
nuovi di appoggio ed esposizione, rende pubblico e collettivo uno spazio privato. Il muro invece di
Aries Mateus Museo al faro de Santa Maria, diventa realmente abitabile e grazie alla deformazione
volumetrica ne modella come complementare il vuoto attorno, costruendo il fronte della piccola piazza.
Se poi il muro, o meglio i due muri di confine, contengono un nuovo modo di abitare la città, come
avviene a Parigi nel Passage 56, il tessuto urbano può essere reinventato inserendo una sorta di
architettura parassita minimale, che vive per attivare lo spazio aperto in relazione all’edificato.
Così nell’immaginario di D.Van Barkel a Bonheiden Belgium tutto il paesaggio del piccolo centro storico
viene punteggiato di oggetti leggeri, terrazze, box verdi, pensiline, come una sorta di contenitori della
memoria agricola del paese, verso una configurazione urbana contemporanea.
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