Inpiù storia e ricerca 06.04.2013
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Inpiù storia e ricerca 06.04.2013
la Voce del popolo LIMES la Voce del popolo LIBURNICO: LE PIETRE DELLA NOSTRA MEMORIA storia www.edit.hr/lavoce Anno 9 • n. 72 Sabato, 6 aprile 2013 CONVEGNI RECENSIONE ANNIVERSARI PILLOLE INTERVISTA Riflessioni sulle terre giuliano-dalmate Una radio e la «guerra fredda adriatica» Il sogno dell’angelo dal «paradiso nero» «Streghe della notte» per fermare i nazisti Passione travolgente per l’archeologia Da Brescia un chiaro segnale della volontà di comprendere ciò che accadde in questa regione Il libro di Roberto Spazzali è un esempio di ricerca di «serie A» sulle nostre vicende di metà ’900 Il 4 aprile di 45 anni fa veniva assassinato Martin Luther King, attivista e Nobel per la pace Estate ’42, pianura del Don: la straordinaria, eroica epopea di un gruppo di aviatrici russe “Scienza, quindi democrazia”: un’analisi del suo ruolo culturale e sociale 2|3 4|5 6 7 8 2 storia&ricerca sabato, 6 aprile 2013 CONTRIBUTI di Ivan Pavlov RIFLESSIONI la Voce del popolo di Italo Dapiran LIBERI TERRITORI E TERRITORIO LIBERO T rieste è, per cause storiche, una città peculiare. Ogni via è intrisa di odori, sapori e suoni che non rispecchiano l’omologazione delle altre città italiane. Questa sua diversità, che deriva non solo dall’essere stata porto franco ed essere città di confine, la porta a essere oggetto di un miscuglio di emozioni ben polarizzate: c’è chi la ama, e chi non la sopporta. La montaliana “divina indifferenza”, invece, è messa in risalto dalla perdita di autonomia e, specialmente, autodeterminazione. Quando, nel 1919, il Trattato di Pace si firmava a Versailles, la Camera di Commercio di Trieste chiedeva un referendum per costituire uno stato fra Trieste e l’Istria. Non fu ascoltata, perché gli interessi nazionali romantici prevalsero sullo spirito pragmatico e razionale dei mercanti. Una guerra mondiale dopo, la versione ridotta di questo sogno infranto si apre come uno spiraglio di speranza nelle tenebre del dopoguerra: la 16.esima Risoluzione delle Nazioni Unite del 10 gennaio ’47 istituisce il Territorio Libero di Trieste. A capo un fantomatico Governatore, la cui elezione spettava alle Nazioni Unite. Fino all’elezione del Governatore, il TLT viene diviso in una zona amministrata dagli angloamericani e una zona amministrata dagli jugoslavi. 5 ottobre 1954, Memorandum di Londra: gli anglo-americani lasciano Trieste, ovvero l’amministrazione di essa, agli italiani. Ma la situazione, in linea di massima, non cambia: il TLT esiste ancora, e l’amministrazione delle due zone rimane temporanea. Fino al famigerato Trattato di Osimo del 10 novembre ’75. Italia e Jugoslavia si spartiscono il TLT con un trattato bilaterale, prendendosi le due fette di territorio e le due fette di popola- || La divisione in “zone” del territorio zione. Un’altra nazione nell’infinita storia di microstati europei cessa di esistere con l’estensione della sovranità dei due stati coinvolti su di essa. Pare finita qui, finché la crisi economica non comincia a divampare come un cavallo imbizzarrito: il vecchio spirito europeo si riaccende nelle zone autonomiste, indipendentiste o addirittura pericolose. La vecchia Trieste che tutti davano per sepolta fra le macerie dell’Austria-Ungheria e memore solo di antiche glorie inafferrabili si muove. Proprio come la grande proletaria di Pascoli. Un gruppo di giovani e vecchi, di lavoratori e disoccupati, di triestini di ogni genere si riversa nel Movimento Trieste Libera. Casus belli la scoperta, per così dire casuale, di un cavillo quasi superficiale: il TLT, creato dalle Nazioni Unite, con uno Statuto permanente e diritti garantiti, pare, con il Trattato di Osimo, essere stato invaso da forze militari aggressive. Le mani tremano allo scrivere queste parole, conscie del fatto che esse sono scomode, quasi illeggibili agli occhi di molti. Il Movimento Trieste Libera è a conoscienza di questo guaio, riconosciuto anche dalle Nazioni Unite, che non hanno mai ratificato il Trattato di Osimo, il cui testo, tra l’altro, deposto unilateralmente dall’Italia presso il Segretariato dell’ONU ben dieci anni dopo la sua entrata in vigore nel 1977. Mai ratificato perché così facendo si dovrebbe modificare il Trattato di Pace del 1947 e la Risoluzione n. 16, che instaura il Territorio Libero stesso. Rivendicando il “diritto a vivere in una condizione di benessere individuale e collettivo”, tenendo conto che il Territorio Libero è “multiculturale, multilingue e intimamente mitteleuropeo”, il popolo si riprende in mano le redini delle proprie sorti, tagliando la testa alle moire che lo castigavano. Con una sincronica presa di posizione sia sul Porto Libero internazionale, che sul suo inseparabile entroterra, la popolazione di Trieste vuole smettere di essere serva/schiava e decidere per sé stessa. Non è, questa, un’insurrezione, una rivoluzione, una rivolta. I cittadini chiedono solo che si finalizzi quanto già formalmente in atto. La legalità c’è già, manca l’instaurazione di fatto e la costruzione del diritto. Il primo passo? Coinvolgere la popolazione, informare, e soprattutto, fare pressione sull’ONU perché elegga un Governatore. La fiaba che vi racconto è lunga, travagliata, e non ha ancora un lieto fine, per nessuna delle parti. Vi esorto a prenderne, se non altro, atto e conoscienza, perché nell’era dell’informazione non informarsi è peccato. Questo articolo non vuole solo fare notizia. Non è solo reportage di un avvenimento. È la dichiarazione di esistenza di un pensiero che ancora non è stato spezzato: il desiderio di ripensare, di ricredere, di rivedere, di rifare. Il Movimento e il Territorio domani potranno far parte del passato e aggiungersi alle migliaia di movimenti simili che, fra vespri siciliani e comune di Parigi, sono oggetto di studio storico. Ciò che non morirà, si spera, è la volontà di essere liberi che ancora impregna le genti d’Europa, il non voler essere succubi, il non voler né piegarsi né spezzarsi, ma semplicemente vivere in armonia con sé e gli altri. Gli echi della democrazia voluta dai nostri antenati nel corso dei secoli non si sono estinti, ma ora sempre più e più che mai rimbombano fra le doline del Carso: ascoltare o ficcarsi le dita nelle orecchie? Non è una decisione semplice. N ella suggestiva cornice del Salone Vanvitelliano di Palazzo Loggia, prestigioso edificio rinascimentale a pianta rettangolare, espressione del potere veneziano in città, oggi sede della Giunta comunale, ubicato nel centro storico di Brescia, affacciato sull’omonima piazza, la “platea magna”, lo scorso 14 marzo si è svolto il convegno internazionale “Le vicende del confine orientale d’Italia e l’esodo dei giuliano-dalmati. Una memoria per la nuova Europa che sta sorgendo”. L’iniziativa è stata promossa dal Centro mondiale per la cultura giulianodalmata (CMC) della città lombarda, con il patrocinio del Comune di Brescia, in collaborazione con la Regione Lombardia, la Provincia di Brescia, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, la Fondazione ASM e la Fondazione Brescia Musei. Si è trattato di un incontro importante, un confronto teso a cogliere i nessi degli accadimenti storici che sconvolsero il contesto dell’Adriatico orientale e interessarono ogni aspetto della vita sociale. In un percorso pluridisciplinare, i relatori intervenuti hanno ragionato sui problemi che investirono l’area geografica dalla fine della Serenissima al secondo dopoguerra, con riferimenti anche agli eventi più recenti. Non sono mancati i cenni al crollo del Muro di Berlino, alla dissoluzione dei regimi comunisti nell’Europa orientale nonché all’implosione della Jugoslavia e al bagno di sangue seguito alla sua disgregazione, a circa un decennio dalla morte di Tito, leader carismatico e artefice di una Repubblica socialista plurale in senso lato, che con indubbia abilità seppe tenere insieme le varie tessere di quel mosaico. L’oblio, un delitto culturale Si è parlato anche dell’estensione dell’Unione europea e della prossima adesione della Croazia, che per l’Istria significherà il primo atto verso la scomparsa del confine e la ricomposizione di quello spazio geografico, di fondamentale rilevanza soprattutto per la comunità italiana. È stato un convegno di qualità che ha, indubbiamente, raggiunto gli obiettivi prestabiliti. Questo lodevole incontro di studio ha presentato al pubblico, composto anche da numerosi studenti e docenti delle scuole medie superiori, aspetti e problemi di terre non sempre conosciute, dando il giusto rilievo agli stretti legami con la penisola italiana e la sua civiltà. Nella sua introduzione, Luciano Rubessa, presidente del CMC di Brescia ed esule da Fiume, ha posto l’accento sul problema della dimenticanza e della destoricizzazione, che porta inevitabilmente all’oblio (l’ha paragonato a un “delitto culturale”). Con l’istituzione del Giorno del Ricordo, sempre l’oratore, l’Italia ha rotto il silenzio su una tragedia dimenticata e si è iniziato a parlare delle terre abbandonate; in concomitanza sono affiorate con maggiore evidenza anche le tesi negazioniste e giustificazioniste. E per Valerio Di Donato, giornalista del “Giornale di Brescia”, moderatore dei lavori, il dibattito proposto a Brescia ha voluto essere un CONFRONTI ESUGLIITAL punto di partenza, una riflessione su pagine di storia poco conosciute. Al margine del convegno gli abbiamo posto alcune domande. Il giornalista si interessa anche ai problemi del confine orientale d’Italia e sull’argomento ha pubblicato un agile e al tempo stesso stimolante volumetto intitolato “Istrianieri. Storie di esilio” (liberedizioni, Gavardo, 2006). Come nasce l’idea del convegno? Direi che nasce dalla consapevolezza che è cambiato, o meglio sta cambiando, sensibilmente, l’approccio ad un tema da sempre controverso come la storia delle foibe e dell’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate alla fine della seconda guerra mondiale. Nel 2007 l’Italia e la Croazia, con i rispettivi presidenti della Repubblica, litigavano sulle cause e le colpe di quel dramma epocale. Nel 2010, i due Paesi, tre con la Slovenia, si abbracciavano invece simbolicamente, pregando insieme sulle note del maestro Muti per una riconciliazione duratura fra italiani, sloveni e croati, ormai accomunati dal medesimo destino europeo. Ecco, fra pochi mesi anche la Croazia entrerà a pieno titolo nell’Unione europea come 28° Stato, e ci pareva uno spunto interessante da sviluppare quello di una memoria collettiva “allargata”, più che “condivisa”, da elaborare sulle tragiche vicende del confine orientale, nella quale, attraverso il filtro della ricerca storica, far confluire le differenti sensibilità e punti di vista esistenti. Allargare gli sguardi per cogliere i nessi Con questo incontro si è voluto presentare il confine orientale d’Italia e i suoi problemi prendendo in considerazione un arco temporale relativamente ampio. Vi è, quindi, la consapevolezza che per cogliere i nessi sia doveroso allargare lo sguardo? L’analisi dei fatti e la ricerca delle cause di una tragedia colossale, che ha investito tutte le popolazioni di Istria, Fiume e Dalmazia, sono state a lungo viziate da strumentali visioni di parte, tendenti ora a restringere ora ad ampliare in modo limitato e fazioso la prospettiva temporale. Revisionismi e negazionismi hanno inquinato per decenni le falde della conoscenza, fermando l’attenzione al solo periodo successivo all’8 settembre 1943, o focalizzandola sul solo ventennio fascista e la guerra di occupazione della Jugoslavia. La storia che è scorsa nelle vene del Carso triestino e goriziano come nelle calli venete di Rovigno e Pola o nella Fiume mitteleuropea e nelle rive zaratine, affonda in realtà le sue radici almeno nel Settecento veneziano e poi nell’Ottocento del risveglio incrociato del sentimento nazionale sotto la cappa degli Asburgo. Nel convegno promosso a Brescia dal CMC si è partiti da lontano, analizzando l’evoluzione la Voce del popolo storia&ricerca IERIFLESSIONISULL’ESODO ALIANIDELL’ADRIATICOORIENTALE Guido Crainz nel suo Il dolore e l’esilio, la storia lacerata del XX secolo “ci fa capire l’esigenza e l’urgenza di un confronto reale fra le differenti memorie di un’Europa che nel Novecento ha vissuto in modo diverso due guerre e due dopoguerra, e ha conosciuto opposti totalitarismi”. Il lungo periodo di dominazione della Serenissima sull’Adriatico orientale, con il suo lascito artistico-culturale e il suo esempio di civiltà fondata sul rispetto del plurilinguismo e della multiculturalità, è il migliore ricordo, o meglio il ricordo dell’italianità adriatica di queste splendide terre. Cercare di guardare avanti e anche «di lato» Per evitare i luoghi comuni e per comprendere le articolate vicende della Venezia Giulia il dialogo e il confronto sono importanti. A Brescia vi è una particolare attenzione, che, presumiamo, è il risultato di un’attenta riflessione. È così? || Kristjan Knez e Valerio Di Donato dei rapporti tra l’elemento italiano e l’elemento slavo in un’ottica di conoscenza e comprensione, e non già di propaganda. Se desideriamo comprendere l’essenza e la complessità di quelle che generalmente sono definite le “terre perdute” è fondamentale conoscere anche il retaggio storico del popolo italiano presente lungo l’Adriatico orientale nel corso dei secoli. Concordi? Assolutamente sì. E non per nostalgiche quanto sterili rivendicazioni di sapore nazionalistico, ma perché negare l’humus italiano o italofono di quella che chiamiamo Venezia Giulia, dimenti- carne le millenarie radici latine e venete, significa negare la storia stessa di queste terre, di composizione etnicamente mista, una secolare frontiera fra il mondo latino, slavo e germanico, che ha vissuto radicali trasformazioni soprattutto nel “secolo breve” dei totalitarismi e dell’imbarbarimento dell’Europa. Il punto è che non bisogna avere paura della conoscenza, e vorrei aggiungere conoscenza “reciproca”, perché per troppo tempo la diffidenza e i pregiudizi, uniti a inconfessabili interessi di consenso politico, hanno impedito che si facesse piena luce su una storia che non parte dal 1918 o dal 1943, ma neppure dal 1991. Come scrive giustamente lo storico L’aver organizzato a Brescia un convegno fondato sul confronto fra le diverse culture espresse da un’area di confine teatro di tante tragedie ai danni ora dell’una ora dell’altra etnìa, è un punto di merito innegabile per l’associazionismo della diaspora giuliano-dalmata nato nella terra della Leonessa d’Italia con l’arrivo delle prime ondate di profughi dopo il 1945. Gli esuli bresciani avrebbero potuto limitarsi a ricordare la “propria” tragedia, commemorare i “propri” morti, chiudersi nel lamento – peraltro legittimo – e nel rancore per i torti subiti. E invece, nel corso degli anni, anche qui si è capito che bisogna guardare avanti, e anche “di lato”, alla storia del proprio ex vicino di casa, al futuro di una convivenza in ambito europeo, dove la riconciliazione sarà più facile se tutte le parti in causa saranno disposte ad accettare una operazione-verità che non faccia sconti a nessuno. Al convegno del 14 marzo abbiamo assistito a uno straordinario dibattito, che mi auguro possa essere d’esempio per chi preferisce rimanere arroccato in una visione unilaterale della nostra storia recente. Negazionisti in testa. Nel Salone Vanvitelliano abbiamo visto anche una folta rappresentanza di studenti e di docenti delle scuole medie superiori. Queste iniziative come sono accolte dal mondo della scuola? L’attenzione del mondo scolastico è senz’altro elevata, anche se, come altrove, circoscritta prevalentemente al periodo a ridosso del 10 febbraio. Il lavoro di informazione e divulgazione sviluppato in questi anni dalle rappresentanze degli esuli è stato però recepito da un numero sempre più elevato di istituti, oltre che da molti Comuni della vasta provincia bresciana. Le conferenze nelle scuole rappresentano una realtà sabato, 6 aprile 2013 3 consolidata, ma il problema vero è dato dall’esiguo spazio offerto nei programmi di studio, falcidiati dai tagli alle ore di insegnamento. Si insegna sempre meno Storia, ed è chiaro che una pagina solo di recente riscoperta come le foibe e l’esodo fatichi non poco a trovare la giusta collocazione. Tu non hai legami diretti con l’Istria, però nutri un forte interesse per le sue vicende storiche e hai dedicato anche un libro all’argomento. Quando e in che modo ti sei avvicinato a questi problemi? Come la maggior parte degli italiani, ho scoperto la cosiddetta “questione giuliana” in età adulta, e solo grazie al mio lavoro. Nei primi anni Novanta, in coincidenza con il mio arrivo al “Giornale di Brescia”, ho sviluppato un interesse crescente, quasi spasmodico, per le guerre di secessione nella ex Jugoslavia. Cominciai, su suggerimento anche del compianto commendator Tonci Cepich che all’epoca presiedeva l’Anvgd di Brescia, con un viaggio (era il 1994) nell’Istria spopolata di turisti. Qui presi contatto con le per me fino ad allora sconosciute “comunità” della minoranza italiana e ne feci un ampio resoconto per il giornale. L’anno dopo finii a Belgrado, sotto embargo, per tentare di capire cosa fosse la “Grande Serbia” di Milošević. Quindi a Sarajevo, e ancora, nuovamente, in Istria, a Pola e Rovigno. Istria per me non era solo “Italia perduta”, ma “Balcania allargata”. Poi, con l’istituzione del “Giorno del Ricordo”, ho messo a frutto qualche anno di esperienza e di conoscenze scrivendo un libro fatto di storie di esuli, istriani, fiumani, dalmati, ma anche di italiani fuggiti dai Sudeti occupati dall’Armata Rossa, e di un ragazzo croato, di lontane origini friulane, che scappò dall’orrore della guerra fra serbi e croati in un paesino vicino al confine bosniaco. E poi, se vogliamo dirla tutta, dentro di me palpita l’animo inquieto del nomade, un po’ emigrante e un po’ esule, essendo figlio di insegnanti meridionali trasferitisi in Veneto alla metà degli anni Cinquanta. Attraverso le parabole, drammatiche ma anche umanamente magnifiche, di tanti esuli giuliano-dalmati che ho conosciuto, riscopro e risistemo le mie radici, la mia multiculturalità, oltre i confini della piccola patria che mi ospita, e a cui sono grato, ma di cui non farò mai un vessillo di esclusione dell’altro. La manifestazione di Brescia va letta come un chiaro segnale della volontà esistente in una parte d’Italia di comprendere ciò che accadde nel secondo dopoguerra, ma anche nei periodi precedenti, per cogliere appieno il ruolo e l’apporto del popolo italiano delle rive orientali dell’Adriatico nel corso dei secoli nonché le relazioni esistenti nelle varie età storiche fino alla cesura avvenuta negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Ci sono delle ferite ancora aperte, ma è necessario studiare l’intera vicenda, senza omissioni, perché escludendo la discussione non può esserci conoscenza. E comprensione significa anche rispetto per le memorie altrui, senza le quali non è possibile ricostruire le vicende storiche ed auspicare la convivenza reciproca. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo sabato, 6 aprile 2013 RECENSIONE di Emanuela Masseria P er accedere alla redazione di quella radio clandestina bisognava passare attraverso un finto armadio a muro. Sembra quasi un particolare da giallo di “serie B”, invece il “romanzo” in questione, quello di Roberto Spazzali sulle vicende di Radio Venezia Giulia è un fervido esempio di ricerca, che si richiama a quella storia di “serie A” che viene attribuita a un certo “confine orientale”. Una parte di questa inizia nello specifico il 3 novembre 1945, quando a Venezia si avviano le trasmissioni di questa emittente voluta dal Comitato di Liberazione Nazionale giuliano, con il sostegno del Ministero degli Esteri italiano. A tenerla in piedi ci sono il conte Justo Giusti del Giardino e, fino al 1949, un direttore d’eccezione: lo scrittore istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini. Radio Venezia Giulia, da quel momento, prende il suo posto clandestino nella “guerra delle radio”, quale strumento di informazione e sostegno alle popolazioni italiane dei territori occupati dalla jugoslaiva. La redazione è a Palazzo Tiepolo Passi, abitazione di Quarantotti Gambini, e l’antenna emittente è posta sul campanile della chiesa di San Nicolò, al Lido. Dopo questa fase pionieristica Radio Venezia Giulia prosegue nella sua campagna anticomunista e scandisce con i suoi aggiornati notiziari tutta la storia della Venezia Giulia fino all’ottobre del 1954, venendo poi assorbita nella Rai. Come nelle migliori spy story Per capire le atmosfere dell’epoca e del contesto, basti dire che il clima della ricerca, senza che ce ne sia l’intenzione da parte dello studioso che l’ha curata, è da spy story. Gli elementi ci sono tutti: nomi in codice, personaggi misteriosi, inseguimenti, omicidi, intrighi internazionali e documenti scomparsi. Elementi in più che ci raccontano, pur nelle minuzie della storiografia, un periodo realmente avventuroso, situato in un orizzonte territoriale che potrebbe sembrare quasi mitico, oltre che sulle ceneri di una comunità lacerata dalla guerra. Agli esordi di questo lavoro di ricostruzione, pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana (collana “I leggeri”) con l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano dalmata (pp. 234), c’è poi la passione per l’andare a scovare materiali che i più, in ambito accademico, avrebbero lasciato perdere, viste le difficoltà di reperimento delle fonti. “Tutto è partito circa 4 anni fa, riordinando l’archivio di Quarantotti Gambini, che si ritirò a Venezia dopo il 1945. Nelle sue carte e nei suoi carteggi – ricorda lo storico – trovai dei riferimenti a Radio Venezia Giulia, e non era la prima volta. Ci furono precedenti di studio sulle radio di quel periodo e più in generale sui giornali e le radio che facevano propaganda”. Poi, dagli anni ‘80, Spazzali si ritrova a scrivere specificamente di Radio Gorizia, emittente segreta nascosta sotto le pendici delle colline che reggono il castello della città. Da Trieste a Roma: la difficile ricostruzione Il suo scopo era diffondere propaganda anticomunista negli anni del Dopoguerra. Lo storico, nemmeno poi fosse il suo destino svelare le trame di certi particolari canali mediatici, trova nella biblioteca dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste una tesi di laurea su Radio Venezia Giulia, da dove emerge un abbozzo di questa realtà, rintracciabile attraverso alcune interviste ad Alvise Quarantotti Gambini, fratello del celebre scrittore. Certo, si trattava di testimonianze piuttosto vaghe e circostanziate, in un contesto dove lo storico inizia a misurarsi con la necessità di scandagliare centinaia, migliaia di articoli, testi, registrazioni. La ricerca puntuale scatta quindi tra questi documenti, risalenti al periodo intercorso tra il novembre del 1945 e l’estate del ‘49, negli scaffali della radio. Ma la vera svolta è nel 2010, anno in cui Spazzali accede all’archivio della presidenza del Consiglio dei Ministri, dove c’è un fondo e un ufficio sulla storia delle zone di confine che va dal 1945 alla fine degli anni ‘60. Tale ufficio, curato inizialmente da un apposito sottosegretario, nelle sue delicate funzioni cessò le sue attività nel 1954, per poi diventare un archivio contenente fondamentali passaggi della storia di regioni come la Val d’Aosta, il confine francese, il Trentino e il Friuli Venezia Giulia. Le funzioni dell’emittente In sostanza, era un organismo deputato all’italianità; qui Spazzali trova un gran numero di fascicoli che gli permettono di ricostruire nel dettaglio la storia dell’emittente, che si configura fin da subito in uno strumento di politica estera, per il sostegno morale e psicologico della popolazione della Venezia Giulia. Nel tempo la sua azione si incentrerà su aspetti QUI RADIOVENEZIAGIULIA UNAVOCEPERIFRATELLI DELCONFINEORIENTALE specifici del territorio, anche in funzione dei mutamenti diplomatici della vita di confine. Una prima tappa, secondo Spazzali, è quella che va dal novembre 1945 al settembre 1947: una fase vacillante di trattative internazionali, con diversi tentativi di aggirare la censura alleata e filojugoslava. L’operato dell’emittente si forma sull’esempio di Radio Bari, che presentava un palinsesto plurilingue (trasmetteva anche in ebraico e arabo) e che diventa addirittura un esempio che ispira poi la struttura della più celebre Radio Londra. Gli Alleati, alla base, crearono la necessità di dar vita a queste radio a causa della fitta censura della propaganda italiana. L’organizzazione per Radio Venezia giulia fu in ogni caso efficace fin dall’inizio. Da quel campanile di Venezia si trasmetteva in onde medie fine a raggiungere la Danimarca e in onde corte sul territorio locale. Questo non impediva agli angloamericani in giro per l’Europa di intercettarla e di inviare conseguenti noti note trascritte alla BBC, non senza fatica. Sulle prime cercarono infatti la redazione a Trieste, senza successo. Responsabili e informatori Un altro grattacapo per gli Alleati era anche la qualità delle sue trasmissioni e relazioni, curate dai fratelli Quarantotti Gambini, dal giornalista Ugo Milelli e appunto dal già citato conte Justo Giusti del Giardino. Quest’ultimo aveva alle spalle una storia particolare. Diplomatico di carriera, partigiano fino al ‘45, una volta tor- nato a casa, nel Dopoguerra, viene inviato dal governo a Venezia come funzionario liquidatorio di un albergo dove c’erano altri funzionari internati per non aver collaborato con Salò. O almeno, in apparenza: in realtà il suo compito era sovraintendere il territorio tra la provincia udinese e la Venezia giulia, sulla linea controllata da pattuglie miste (la linea Egizi, per la provincia friulana). Giusti del Giardino aveva il delicato compito di rilasciare i lasciapassare, ma anche un terzo mandato: quello di infiltrare informatori nella Venezia giulia e nella provincia udinese. Da Trieste e Gorizia il compito era fattibile, più difficile nel resto della Venezia giulia. Tra i suoi altri colleghi in Radio figura poi Massimo Casini d’Aragona, sua vecchia conoscenza, che resta a sua disposizione a Trieste e sfrutta il suo ascendente sugli ambienti chiave che si occupano di emigrazione. Casini interroga membri del CLN, funzionari, politici (anche monsignor Santin), creando una solida rete di informatori in Istria, di cui si conoscono attualmente solo alcuni nomi, senza riuscire a risalire alla struttura completa. Le «antenne» in Istria Quello che però è certo è che tutto quello che accadeva nelle varie località istriane veniva trascritto e diffuso sfruttando le corse dei “vaporini”. Così venivano recapitate notizie attraverso semplici bigliettini che finivano a Trieste, dove un giornalista con un’apposita radio ricetrasmittente a morse inviava i dispacci a Venezia. Dopo un po’ di tempo anche in Istria ci si dotò delle stesse apparecchiature radio in modo da recensire, giorno per giorno, puntuali, le varie notizie dal territorio. Inizialmente l’attività si configurava con una riproposizione di ritagli di stampa, ma poco dopo il ‘45, nelle “redazioni” istriane si cominciarono a recensire manifestazioni e eventi, come ad esempio le manovre degli Alleati, le attività collegate al mondo dell’etnia, le varie notizie di Isola, Pirano, Pisino, Montona che, da quanto riporta Spazzali, erano estremamente precise. Dai suoi riscontri si ha la percezione che le informazioni divulgate dalla radio erano di qualità superiore, “per densità delle notizie ma anche per la densità quasi materica degli elementi contenuti”. Poi Spazzali presenta un quadro completamente diverso sul quale, dal suo punto di vista di ricercatore, bisognerebbe lavorare. L’analisi si sposta sulla ricetrasmittente di Pola e sulla sua breve durata. Succede infatti che il fabbricato che la ospita viene circondato dai Servizi segreti che arrestano il marconista, due redattori e un informatore. Nessuno darà notizia dell’accaduto, mentre l’intero quartiere viene allertato. I quattro arrestati riportano all’attenzione una questione delicata, basti pensare che arrivano a Trieste, prigionieri, su una nave da guerra. Il sospetto è che a Pola ci sia una spia storia&ricerca la Voce del popolo sabato, 6 aprile 2013 dell’Ozna perchè il marconista trasmetteva con codici jugoslavi. Inoltre, il capostruttura Renato Rocco, un istriano ex-alpino, a Venezia faceva parte di un ufficio dove si interrogavano prigioneri di guerra, ma lavorava anche per i Servizi segreti italiani, oltre che per gli americani. A Pola Rocco non venne mai arrestato e probabilmente da qui continuò a mandare informazioni dall’Istria. Vergarolla, la strage preannunciata? UN VOLUME di ROBERTO SPAZZALI RIPERCORRE LA VICENDA DELL’EMITTENTE «PIRATA» CHE OPERÒ A VENEZIA, SOTTO LA DIREZIONE DELLO SCRITTORE PIER ANTONIO QUARANTOTTI GAMBINI, DAL NOVEMBRE 1945 AL SETTEMBRE 1949 Altro fatto importante, in stretta connessione con la strage di Vergarolla del 18 agosto 1946: il 17 agosto, Radio Venezia Giulia riporta di una straordinaria manifestazione popolare, a Pola, parlando di un momento sereno per tutti in una città tormentata. Nessun incidente durante quella giornata, tranne una frase di un esponente dell’UAIS (Unione antifascista italoslovena), che a posteriori suona inquietante: “Divertitevi, che domani piangerete i vostri morti”. Sullo sfondo il contenzioso che prepara il campo a quella devastante esplosione: le mine contese tra la Marina Jugoslava e il comando britannico aveva creato una strana situazione di stallo. Gli Jugoslavi non le avevano mai levate, le mine da quella spiaggia destinata a insanguinarsi, anche se le rivendicavano. A ogni modo, chi scrisse del temibile avvertimento era un anonimo, in un contesto di segretezza e circospezione. Basti pensare che Casini D’Aragona era il Foca ma contemporaneamente anche il Longhis. In tutto questo riusciva, con i suoi due nomi in codice, a parlare di sé stesso come fosse il Longhis che conferiva di questo o tal’altro aspetto al Foca e viceversa. Casini in generale ha contatti con sloveni, cetnici, ustascia, domobranci. È una personalità nota in molti ambienti, come d’altronde anche lo stesso Justi del Giardino, ben conosciuto da Tito, che ammette che la Radio gli crea non pochi problemi. Ma, si sa, la storia era da qui a cambiare in poco tempo. Lo scopo: irradiare controinformazione Dopo il trattato di Pace, le trasmissioni vengono interrotte Pier Antonio per poi essere riQuarantotti Gambini attivate, in forma diversa. La gestione non è più del ministero degli Esteri ma, dal 1947, dell’Agenzia Astra, una delle più importanti del secondo Dopoguerra. L’agenzia ha sede a Trieste, sopra il caffè Tommaseo, e conta un centinaio di collaboratori. Gli intercettatori parlano varie lingue europee e lavorano con un’emittente che all’epoca era più potente dell’Ansa, producendo quotidianamente un notiziario di un centinaio di pagine. La redazione aveva collegamenti con le redazioni di Roma e Milano ma anche con i principali quotidiani italiani e con alcuni network americani. La sua accezione triestina parte in seno alla Democrazia cristiana, con lo scopo di fare controinformazione in attesa delle elezioni italiane del 18 aprile 1948. Il suo obiettivo in prospettiva era di continare ad irradiare controinformazione anche in caso di vittoria del Fronte popolare. Trieste era funzionale proprio perchè fuori dall’Italia e contemporaneamente dentro una postazione d’eccellezza per il monitoraggio delle attività oltre confine. Come Astra l’agenzia lavorò fino a fine anni ‘50, per quanto gli anni d’oro rimangano quelli dalla fine del 1947 fino al ‘49-’50. Da quel che racconta lo storico, dopo il 1949 non ci sono documenti delle attività radiofoniche. Si sa, sotto il profilo secretato, || Ponte di onde sottilissime “Oggi 3 novembre, giorno di San Giusto e anniversario della redenzione di Trieste, una voce libera parla finalmente agli italiani della Venezia Giulia; dopo anni di oppressione fascista, nazista e sedicente progressista. Una trinità che soltanto nel nome si distingue: ma che nella sostanza e nella forma è identica. La nostra voce è nel primo istante una carezza affettuosa di fratelli a fratelli; di figli a padri rimasti nel carcere jugoslavo... dove forse lentamente si ripete per loro la tragedia che nei campi di concentramento europei fece morire giorno per giorno i migliori”. Nell’impossibilità di aiutare in altro modo i nostri concittadini rimasti oltre confine si giocò se non altro la carta della controinformazione, iniziava le sue trasmissioni nel 1945, sulla frequenza di 1.380 Khz, irradiate di nascosto da un appartamento di palazzo Tiepolo Passi, a Venezia, Radio Venezia Giulia. Missione dell’emittente era garantire l’informazione e il sostegno psicologico alla popolazione italiana della regione e in particolare a quella residente in Istria sotto il controllo jugoslavo. Operò sotto la direzione dello scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini dal novembre 1945 al settembre 1949. Tra il 1945 e il 1949 Radio Venezia Giulia mise in onda 3.800 trasmissioni (2600 in onde medie e 1200 in onde corte) tra rubriche quotidiane e programmi speciali: c’era la settimana diplomatica, la tribuna dei partiti, la parola all’economista, il giovedì delle lettere e delle arti, varietà, vita sindacale e vita politica, “Istria Nobilissima”. Dopo un breve periodo di interruzione, riprese i programmi grazie ad un accordo tra il governo italiano e la Rai, che la ribattezzò Radio Venezia III, inserendo nella programmazione la rubrica quotidiana “Ai fratelli giuliani”, poi diventata “L’ora della Venezia Giulia”. Lo storico è partito dalla tesi di laurea di Roberta Strazzaboschi, “Propaganda e informazione radiofonica al confine orientale. Il caso di Radio Venezia Giulia 1945-1949”, e ha setacciato gli archivi: da quelli formidabili dell’Ufficio Zone di confine della Presidenza del Consiglio dei ministri, al fondo dello stesso Justo Giusti del Giardino, conservato al Museo di guerra per la pace Diego de Henriquez, fino all’Archivio di Stato di Trieste e ai fondi dell’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. 5 che “Aspera” era il nome in codice di Radio Venezia Giulia. I tempi poi cambiano e anche le sede radiofoniche. A Venezia la Radio approda in calle degli Avvocati, proprio vicino alla sede dei servizi segreti americani. La trasmissione passa sotto il controllo della Marina militare italiana, con delega a Giulio Andreotti e con l’utilizzo di un’antenna di 70 metri. Dal ‘47 al ‘49 è la principale fonte radiofonica anticomunista. Dopo il ‘49 il suo scopo, comprensivo del sostegno dei “rimasti”, viene meno ma, in considerazione della realtà politica jugoslava, la sua attività in quel periodo è quella di facilitare l’astensionismo della comunità italiana nel 1950. Fa notare lo storico che “gli appelli dal 1945 al 1950 erano quelli di invitare la popolazione a rimanere, in modo da avere una massa critica per trattare con la Jugoslavia”. Un «fastidio» chiamato Radio Capodistria Intanto era nata Radio Capodistria, con una frequenza molto vicina a Radio Trieste, quindi particolarmente fastidiosa. Pierdomenico Colosimo, primo direttore di questa emittente, era italiano (il Peter Colosimo che negli anni successivi conquistò un Premio Bancarella con una sua opera di “fantarcheologia”). Radio Venezia Giulia si trova a doversi confrontare in breve con un appeal diverso, fatto di musica leggera e altre divertenti leggerezze, che mal si confrontano con le sue canzoni popolari e le sue tematiche culturalmente più “classiche”. È questo il momento in cui si pensa che Radio Venezia Giulia possa passare alla Rai, tramite una convenzione con Astra. Il nome viene cambiato in Rai Venezia tre e la trasmissione principale è sui “fratelli giuliani” per quanto la sua funzione sia ora diretta anche agli esuli dei campi profughi siti sulla dorsale adriatica e tirrenica. Un periodo che rimane misterioso Dal 1953 c’è il programma “L’ora della Venezia Giulia” e sempre in quell’anno, la Rai rimpolpa la redazione con vari personaggi, alcuni dal passato torbido e antititoista. Andreotti a quel punto cambia registro e considera di poter controbattere ormai apertamente Tito con il suo ufficio propaganda, che viene ben ascoltato in Jugoslavia. Nel 1954, la questione è chiusa, senza che ci sia una riga di questa radio nella storia della Rai e senza che nessuno abbia mai detto nulla sulle attività dei suoi dipendenti. Quindi il ruolo della Radio in questo ultimo periodo rimane misterioso. Le carte reperite raccontano della presenza di nomi importanti del giornalismo. Alcuni di loro, come Vittorio Orefice, fecero carriera nel mondo dell’informazione italiana. Rimangono però vive delle ipotesi su certi aspetti non chiari della strutturazione della Radio. “Potrebbe essere stato un tentativo di creazione di una prima base di “resistenza passiva” che sarebbe potuta essere attivata in fase critica”, afferma Spazzali, ricordando che “parliamo del 1946, dove su 110mila i profughi 60mila erano militari, pronti a intervenire” e del 1947, “quando 3mila sloveni si presentano a Gorizia dicendo che volevano risiedere in Italia”. Su queste ed altre vicende oggi è disponibile all’IRCI del materiale finalmente digitalizzato, che può essere affrontato, come conclude Spazzali, “non in chiave pregiudiziale ma sperimentale” e con tanta, tanta buona volontà. 6 sabato, 6 aprile 2013 ANNIVERSARI M emphis, 4 aprile del 1968: un minuto dopo le 18, uno sparo squarcia la sera sopra il secondo piano del motel “Lorraine”. Martin Luther King, attivista e Premio Nobel per la pace, cade a terra senza vita, colpito alla testa da un proiettile sparato da un fucile di precisione. Viene soccorso fra gli altri anche da Marrell McCullough, un agente di polizia che cercò inutilmente di tamponare la ferita. Ad uccidere il leader afroamericano un proiettile calibro 3006. Trasportato al St. Joseph’s Hospital, i medici constatano un irreparabile danno cerebrale, la sua morte vienne annunciata alle 19,05 del 4 aprile 1968. Martin Luther King giunge a Memphis il giorno prima, dopo che il suo volo viene ritardato per un allarme bomba. Martin Luther King è a Memphis per partecipare ad una marcia in favore degli spazzini della città (bianchi e neri), che erano in sciopero. Dopo la marcia rientra al Lorraine Motel sito a Mulberry Street di proprietà di Walter Bailey. Nella sua stanza, la 306, situata al secondo piano, assieme ai suoi collaboratori (tra cui il reverendo Ralph Abernathy e Jesse Jackson) cerca di organizzare un nuovo corteo per uno dei giorni successivi. Cena a casa del reverendo Samuel B. Kyles, e alle 17,30 giunge al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l’autista di King gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto. Parla al musicista Ben Branch, che avrebbe poi suonato quella sera ad un incontro locale in una chiesa dove era programmato un incontro. King gli chiese di intonare il suo inno preferito Take my hand, my precious Lord (prendimi per mano, mio prezioso Signore), poi intonato davvero dalla celebre Mahalia Jackson, cara amica di King, nel corso dei suoi funerali. storia&ricerca la Voce del popolo A cura di Fabio Sfiligoi MLK UNANGELODAL «PARADISONERO» Sviluppi Il presidente Lyndon B. Johnson chiede al popolo di non cedere alla violenza, la stessa che aveva ucciso King, ma in più di 120 città si registrarono atti violenti quali incendi e saccheggi. Dichiara il 7 aprile come giorno di lutto nazionale in onore del leader per i diritti civili, al funerale in sua vece era presente il vicepresidente Hubert Humphrey. Su richiesta della vedova Coretta King al funerale del marito, del 9 aprile, fu letto l’ultimo sermone che il defunto aveva pronunciato il 4 febbraio di quell’anno. Nel sermone King chiede che il funerale si svolgesse con grande semplicità: la sua bara, così, viene trascinata da un carro con due asinelli della Georgia, come espressamente richiesto quando era ancora in vita. Poco tempo dopo la morte di King la città di Memphis, che vide un corteo di 42.000 persone sfilare accetta le richieste degli spazzini neri, che interrompono lo sciopero. Il killer viene arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiama James Earl Ray, ma rivelò che non era stato lui l’uccisore di King; anzi, sosteneva di sapere chi fosse il vero colpevole. Nome che non poté mai fare perché muore dopo esser stato accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso. Ancora oggi il mistero della morte dell’indimenticabile leader nero rimane insoluto. Gli atti dell’indagine sull’assassinio di Martin Luther King jr sono secretati fino al 2002 dall’amministrazione americana. Alcuni testimoni confermarono come il colpo provenisse da un luogo diverso da quello in cui si trovava Ray. Venne accertato che lo sparo proveniva dalla stanza 5b della pensione Bessie Brower. L’arma del delitto, è un fucile Remington con mirino telescopico, abbandonato sul marciapiede di fronte ad un negozio, vicino al luogo del delitto, con le impronte digitali di Ray sopra di essa. Pochi mesi dopo MLK, il 6 giugno 1968, a Los Angeles, viene ucciso anche Robert Kennedy, candidato alle presidenziali. Pari diritti per tutti la scelta di fondo Esistevano all’epoca in America fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri. A teatro, le balconate erano altrettanto divise e così i posti negli autobus pubblici (il caso di Rosa Parks di cui abbiamo già trattato). La lotta per cambiare queste condizioni e guadagnare la parità dei diritti di fronte alla legge per i cittadini di qualsiasi razza è stata la scelta di fondo della breve vita di Sono passati 45 anni dalla morte di Martin Luther King, attivista e nobel per la pace Martin Luther King. Pacifista convinto e grande uomo del Novecento, Martin Luther King Jr. nasce il 15 gennaio 1929 ad Atlanta (Georgia), nel Profondo sud degli States. Suo padre era un predicatore della chiesa battista e sua madre una maestra. I King vivono nella Auburn Avenue, soprannominata il Paradiso Nero, dove risiedono i borghesi del ghetto, gli “eletti della razza inferiore”, per dirla con un’espressione paradossale in voga al tempo. Nel 1948 Martin si trasferisce a Chester (Pennsylvania) dove studia teologia e vince una borsa di studio || Rosa Parks, a destra, baciata dalla moglie di MLK Coretta Scott King che gli consente di conseguire il dottorato di filosofia a Boston. A 50 anni da: «Io ho un sogno…» Qui conosce Coretta Scott, che sposa nel ’53. A partire da quell’anno, è pastore della Chiesa battista a Montgomery (Alabama). Nel periodo ’55-’60, invece, è l’ispiratore e l’organizzatore delle iniziative per il diritto di voto ai neri e per la parità nei diritti civili e sociali, oltre che per l’abolizione, su un piano più generale, delle forme legali di discriminazione ancora attive negli Stati Uniti. Nel 1957 fonda la “Southern Christian Leadership Conference” (Sclc), un movimento che si batte per i diritti di tutte le minoranze e che si fonda su ferrei precetti legati alla non-violenza di stampo gandhiano, suggerendo la nozione di resistenza passiva. Per citare una frase di un suo discorso: “...siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione... Se protesterete con coraggio, ma anche con dignità e con amore cristiano, nel futuro gli storici dovranno dire: laggiù viveva un grande popolo, un popolo nero, che iniettò nuovo significato e dignità nelle vene della civiltà.”. Il culmine del movimento si ha il 28 agosto 1963 (50 anni fa) durante la marcia su Washington quando King pronunci a il suo discorso più famoso “I have a dream....” (“Ho un sogno”). Nel 1964 riceve ad Oslo il premio Nobel per la pace. Durante gli anni della lotta, King viene più volte arrestato e molte manifestazioni da lui organizzate finiscono con violenze e arresti di massa; egli continua a predicare la non violenza pur subendo minacce e attentati. “Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell’ ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena”. Nel 1966 si trasferisce a Chicago e modifica parte della sua impostazione politica: si dichiara contrario alla guerra del Vietnam e si astiene dal condannare le violenze delle organizzazioni estremiste, denunciando le condizioni di miseria e degrado dei ghetti delle metropoli, entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca. storia&ricerca la Voce del popolo PILLOLE sabato, 6 aprile 2013 di Carla Rotta 7 Donne dell’aviazione sovietica della II Guerra mondiale: combatterono i nazifascisti inquadrate nel 587° e nel 588° reggimento da bombardamento notturno LESTREGHEDELLANOTTE «N ell’estate 1942 nessuno degli eserciti della coalizione nazifascista sapeva ancora che a rispondere alla tempesta di fuoco da essi scatenata sulla pianura del Don vi fossero anche celebri eroine dell’aria, studentesse e operaie patite del volo. Nessuno le aveva obbligate a combattere a bordo di un aereo, furono loro stesse a chiederlo” (M. Rossi, Le streghe della notte”, ed. Unicopli). “Non ci capacitiamo del fatto che i piloti sovietici che ci stanno dando i più grossi problemi siano donne. Non temono nulla, vengono di notte a tormentarci con i loro obsoleti biplani e non ci fanno chiudere occhio per molte notti”. La nota del settembre 1942 porta la firma del capitano tedesco Johannes Steinhoff, che per le donne pilota del 587.esimo e del 588.esimo Reggimento coniò l’epiteto Nachthexen, “Streghe della notte”. Il soprannome, a dirla tutta, faceva riferimento soprattutto alle donne con le ali del 588.esimo Reggimento Bombardamento Notturno, più tardi ribattezzato col titolo onorifico di 46.esimo Reggimento Guardie di Taman di Bombardamento Leggero Notturno, reggimento di combattimento composto di sole donne formato su iniziativa di Marina Raskova e condotto dal maggiore Evdokija Davidovna Beršanskaja. Le Streghe allargarono le ali per le missioni di bombardamento e di disturbo dal 1942 fino alla fine della guerra. Che non avrebbero dato respiro lo si era capito fin da subito, e lo dimostra il fatto che i piloti della Luftwaffe e Steinhoff le bollarono subito con un epiteto comprensivo di timore e rispetto militare. Nel momento di massima dimensione, il 588.esimo era composto da 40 equipaggi di due piloti ciascuno. Gli equipaggi affrontarono oltre 23.672 missioni e sganciarono circa 3.000 t di bombe. Questa fu l’unità dell’Aviazione Sovietica più decorata: ognuno dei piloti ancora in vita alla fine della guerra aveva effettuato più di 1.000 missioni, ventitré avevano ricevuto la Stella d’oro di eroe dell’Unione Sovietica. Il reggimento perse trentuno membri in combattimento. Era dotato di biplani Polikarpov Po-2 in legno e tela. L’aereo originariamente era destinato all’uso per l’addestramento e per l’irrigazione dei raccolti. Poteva portare un massimo di due bombe alla volta, quindi si rendevano necessarie più missioni in una notte. Ci tormentano con i loro obsoleti biplani... così aveva scritto Steinhoff, e davvero l’areo era obsoleto, lento, ma eccezionalmente manovrabile. Il loro valore stava però anche nei piloti: arditi e motivati, in grado di sfuggire agli aerei e ai piloti tedeschi che difficilmente riuscivano ad abbatterli. La guerra si abbatté sulla Russia con una potenza e una possenza incredibili. Stalin sottovalutò non solo la minaccia tedesca, ma anche i mille avvertimenti – non dicerie, congetture e “si dice” ma reali avvertimenti, prove di spie e sostenitori –, così che 146 divisioni dell’esercito tedesco, 14 divisioni rumene, reparti finlandesi, 2mila aerei e 3.350 carri armati diedero vita all’Operazione Barbarossa. La Russia viveva una giornata normale e venne scaraventata nel caso. Ma nonostante tutto, non fu una guerra né facile né veloce. Alla risposta dei vertici alle armi, fece seguito quella della popolazione alla chiamata di Stalin (al suo “rientro”) pochi giorni dopo: “Compagni, Cittadini e sorelle. Combattenti dell’esercito e della flotta, mi rivolgo a voi, amici miei.” Rispose tutta la popolazione. Città e campagna. Uomini e donne. Tutto diventò macchina di guerra. || Lidija LItvyak, Yekaterina Vasylievna Budanova, Maria M. Kuznetsova Donne in armi e con le ali Risposero alla chiamata alla difesa della patria milioni di donne. Presero le armi, vennero impiegate come infermiere, dimenticarono i loro sogni, lasciarono i loro impegni. Tra esse Marina Raskova, che non ebbe subito un incarico al fronte, ma si unì al Comitato di Difesa del popolo e si rese conto che migliaia di donne pilota volevano un incarico operativo nell’aviazione sovietica. Si trattava di donne che avevano avuto esperienze di volo in tanti aeroclub. La Raskova non perse tempo: usò la sua notorietà per arrivare agli alti comandi militari dove espose il suo piano: formare un reggimento aereo composto da donne. Alla Raskova non si poteva dire di no. Alla sua chiamata risposero migliaia di volontarie e lei ne selezionò personalmente 1.000, raccolte nel 122.esimo Gruppo Aereo che lei stessa comandava. Il gruppo interamente femminile dai meccanici ai piloti ebbe ad Engels, sul Volga, un ciclo di addestramento intensivo. Il 122.esimo Gruppo Aereo, viste le sue dimensioni, venne diviso in tre unità più piccole: nacque il 587.esimo BAP (Reggimento da bombardamento in picchiata, il cui velivolo di elezione fu il Petljakov PE-2), il 588.esimo NBAP (588. esimo Reggimento da Bombardamento Notturno, che aveva base nei pressi di Stalingrado. Ebbe il battesimo del fuoco l’8 giugno 1942, in un raid contro contro il quartier generale di una divisione tedesca. Nella missione, compiuta con successo, si ebbe la perdita di un solo velivolo) e il 586 IAP (586.esimo reggimento caccia. In esso militarono Ekaterina Budanova e Lidija Litvyak. Gli aerei in dotazione erano i Yak-1). Strategia volante La madre delle “Streghe”, Marina Raskova, fu anche grande stratega: alla difesa tedesca di uno uno stormo di caccia per intercettare gli aerei sovietici, rispose con il volo radente fino a raggiungere l’obiettivo, il sollevamento in quota e la definitiva picchiata sul bersaglio quando il nemico non sarebbe più potuto intervenire. Un’altra tecnica da lei adottata era quella del volo in pattuglie di tre aerei per gruppo: i due più avanzati distoglievano l’attenzione dei fari tedeschi, il terzo puntava l’obiettivo. Ma siccome ogni strategia necessita dell’elemento sorpresa, che non è merce infinita, aveva messo a punto anche l’avvicinamento alle postazioni nemiche ad alta quota e il successivo abbassamento (con il motore al minimo per evitare rumori) per sganciare le bombe quando nessuno si era nemmeno accorto del pericolo che arrivava dal cielo. La Raskova e le sue Streghe, quindi, con il loro ardimento sopperirono alle non eccelse caratteristiche degli aerei. Nel novembre 1942 Marina Raskova prese il comando anche del 587.esimo Stormo bombardieri in picchiata e dei suoi Petljakov PE-2. Fu proprio ai comandi di un PE-2 che la coraggiosa Strega morì, appena trentenne. mentre si Nel novembre 1942 Marina Raskova prese il comando anche del 587.esimo Stormo bombardieri in picchiata, composto di bimotori Petljakov PE-2. Fu ai comandi di uno di tali mezzi che essa trovò la morte a soli trent’anni. Il 4 gennaio 1943 la pattuglia di tre aerei che comandava si schiantò contro le scogliere che costeggiano il Volga, nei pressi di Saratov. La pattuglia sfidava la bufera di neve per colare in aiuto alle squadre aeree a Stalingrado. L’equipaggio (nessuno si salvò) venne sepolto in una fossa comune, Marina Raskova ebbe funerali di Stato e poi venne inumata nel muro del Cremlino. Pochi mesi più tardi la sua Unità venne ribattezzata 125.esimo Stormo Cacciabombardieri in picchiata “Marina M. Raskova”. Ci sembra doveroso citare le altre comandanti del 588.esimo: Evdokija Davidovna Beršanskaja (Comandante di reggimento), Jevgeniya Žigulenko (Eroe dell’Unione Sovietica - Comandante di volo), Tatyana Makarova (Eroe dell’Unione Sovietica - Comandante di volo), Nina Ulyanenko (Eroe dell’Unione Sovietica - Navigatrice). Ma ci sono altri, tanti nomi: Polina Osipenko, Valentina Grizodubova, Nataša Meklin, Ira Sebrova, Evdokija Beršanskaja, Galja Burdina, Valerija Chomjakova, Valja Lusicyna, Tamara Pamjatnik, Jevgenija Rudneva, Aleksandra Akimova Fjodorovna, Dusja Nosal, Rajsa Aronova, Magiba Syrtlanova, Aleksandra Makunina Aleksandrovna... e l’elenco di queste eroiche donne (piloti, navigatrici, meccaniche...) si fa lungo. 8 storia&ricerca sabato, 6 aprile 2013 INTERVISTA C la Voce del popolo di Marin Rogić UNGIOVANE EPROMETTENTE ARCHEOLOGO he le varie Comunità degli Italiani in Croazia e Slovenia “sfornino” di contino giovani di grande talento in campi diversi, che vanno dalla musica alla recitazione, dalla letteratura alla poesia, è cosa nota e risaputa. Ma che queste stesse abbiano dato i natali a giovani che, attualmente sono alcuni tra i più importanti archeologi della nuova generazione in Croazia, beh, questo cosa direi che è meno nota ai più. Studiare archeologia in un mondo dominato dalle nuove tecnologie digitali, vivendo in un’epoca che tende a dimenticare le scienze umanistiche e il passato, che tende a omologare le diverse culture, che distrugge muri millenari per fare spazio a facciate che impersonano il modernismo, un modernismo che molto spesso è difficile da comprendere, è una scelta troppo spesso azzardata. Vi siete mai chiesti che cosa rappresenti l’archeologia oggi e quale è il suo ruolo nel 2013? Stando alle ultime statistiche sono sempre meno i giovani che intraprendono studi storico-archeologici. Da questo punto di vista il connazionale Mario Zaccaria rappresenta un’eccezione. Laureato a pieni voti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dipartimento Beni Culturali – curricula Archeologia di Udine, nonostante la giovane età (29 anni) ha già alle spalle importanti successi, a partire dalla tesi di laurea “Claustra Alpium Iuliarum. Il Limes liburnico tra fonti, indagini e ricognizione”, con la quale ha attirato l’attenzione di molti esperti del settore, sia nel Bel Paese sia in Slovenia e Croazia. una volta, con il filo e la porta. Grazie a questa “impresa”, mio padre mi ha premiato portandomi al cinema a vedere il film d’avventura “I Goonies”, che all’epoca riscosse un enorme successo tra i ragazzini. Le avventure dei protagonisti mi spinsero a volermi immedesimare nei loro personaggi; anche io volevo vivere le loro avventure, scoprire, esplorare, luoghi e ambienti nuovi, così incominciai ad interessarmi all’affascinante mondo dell’archeologia. Poi dopo le scuole superiori, volevo intraprendere una carriera accademica dove lo studio della storia sarebbe stata la materia principale, anche perché era l’unica materia con la quale passavo a pieni voti alle superiori (ride, ndr). E cosi ho preso la strada per Udine, che mi ha portato a diventare archeologo di professione. Quanto durano e come sono strutturati i studi per diventare archeologo? Mario Zaccaria, premiato dalla Città per le sue ricerche sul Limes liburnico Da bambini di solito si vuole fare l’attore, il pompiere, la ballerina, il cantante, il calciatore. Te già da piccolo hai incominciato a dedicarti all’archeologia. Come è nata questa passione? Tutto è incominciato a sette anni, quando stavo perdendo l’ultimo dente da latte. Lo cavai, alla vecchia maniera, come si faceva la Voce del popolo Anno 9 /n. 72 / sabato, 6 aprile 2013 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina Redattore esecutivo Ilaria Rocchi Impaginazione Borna Giljević STORIA Silvio Forza Collaboratori Italo Dapiran, Kristjan Knez, Emanuela Masseria, Ivan Pavlov, Marin Rogić, Carla Rotta, Fabio Sfiligoi Foto Rolando Giambelli, Ivor Hreljanović e archivio Per prima cosa ho portato a termine gli studi triennali alla Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Udine, sezione per la Conservazione dei Beni Culturali, curricula Archeologia. Poi ho fatto i due anni della specialistica in “Archeologia” e mi sono poi laureato con la tesi “Claustra Alpium Iuliarum. Il Limes liburnico tra fonti, indagini e ricognizione” con la dott. Marina Rubinich. A proposito di questa tesi. Ha riscosso molto successo negli ambienti accademici italiani della Venezia Giulia, che si sono dimostrati molto interessati all’argomento. In Slovenia altrettanto, dove sei stato sei mesi sul campo. Spiegaci che cosa è il Claustra Alpium Iuliarum? Si tratta di un sistema di difesa di chiuse tardo-antico che va da Fiume arriva a Bohinj in Slovenia e molto probabilmente prosegue fino a Cividale del Friuli e finisce a Rattendorf in Austria. Per 150 anni, dall’imperatore Galieno fino a Teodosio il Grande, ha difeso l’accesso al cuore dell’Impero Romano, l’Italia. L’espressione ‘claustra’ indica sia una struttura fortificata su un terreno irregolare ideata per respingere il nemico, sia l’intera linea difensiva. I Claustra Alpium Iuliarum, in particolare sono un sistema di fortificazioni e sbarramenti posti a protezione di quelle valli situate tra Slovenia e Croazia (e, in misura minore anche in Italia e in Austria) in cui correvano le vie di comunicazione più facili da percorrere per entrare in Italia in caso di sfondamento del limes danubiano, come accadde ad esempio nel 169/170 d.C., durante le guerre marcomannico-sarmatiche, quando gli invasori hanno tenuto sotto assedio per vari mesi Aquileia e distrussero Opitergium. I claustra, insieme ai propri antecedenti, e cioè le fortificazioni che seguivano l’espansione romana per assicurare i valichi montani e la città di Aquileia contro || Mario Zaccaria davanti all’Arco romano le popolazioni celtiche, Carni, Giapidi e Histri, prima e, la Praetentura Italiae et Alpium poi, furono delle risposte escogitate per poter tenere sotto controllo le vie di comunicazione, che attraverso le Alpi, portavano in Italia. Specialmente per controllare quel territorio economicamente fondamentale, crocevia della cosiddetta „via dell’ambra“ e dei traffici verso il Noricco (l’attuale Austria) e oltre. Scoprire la città che dorme sotto le pietre Fiume e l’archeologia.. Facendo ricognizione ho potuto ben capire quanto difficile doveva essere, all’epoca, creare un sistema tanto complesso perché non si tratta solamente di mura ma di tutta una serie di preparazioni prima, durante e dopo che dovevano costantemente rifornire con armi, viveri e uomini un’opera imponente come questa. Un’opera che reca in sé un potenziale, che come il Vallo Adriano, il Vallo Antonino, il limes danubiano, che gli Ungheresi si apprestano a valorizzare insieme agli Slovacchi, aspetta di essere riconosciuto da punto di vista culturale, ambientale e turistico per il benessere di questa zona di frontiera. Con il fine ultimo, magari, di essere incluso nella lista come Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Fiume è una città nella quale l’archeologia non è mai stata un facile comprimario. I resti dell’antichità hanno sempre costituito l’ingombrante presenza con la quale fare, per certi versi, i conti. In passato la scoperta di strutture anche imponenti, nel corso di lavori di pubblica utilità, non è diventato motivo sufficiente per mutare il progetto iniziale. Quasi mai. La burocrazia tende a soffocare tutti i buoni intenti di conservazione del territorio. Da tempo si discute della creazione di un parco archeologico e della ristrutturazione della basilica paleocristiana vicino alle terme e qualcosa comunque sta cambiando. Secondo la Strategia dello sviluppo culturale della città di Fiume del periodo 2013-2020, il patrimonio archeologico dovrebbe avere un posto di spicco. Speriamo bene. La Città Vecchia è scomparsa, è inutile chiamarla Città Vecchia, quando di ‘vecchio’ è rimasto quasi poco o nulla. In nome del progresso si sono abbattuti tanti monumenti e case storiche. Adesso siamo arrivati al punto di dovere salvare il salvabile. Ricerche sul generale Italo Gariboldi Cosa nasconde il sottosuolo fiumano? Cosa hai scoperto sondando il terreno? Dove possiamo trovare i resti del Limes? Subito vicino al Centro “Kalvarija” (ex clivio Buonarotti) e su Santa Catarina, ma sono solo, purtroppo, piccoli frammenti, piccole tracce del Limes originale. Una volta era un muro alto e spesso che si può vedere ancora nelle grafiche di Johann Weichard Valvasor, che tracciò nel 17 secolo con esattezza tutto il percorso del Limes. E il Limes ti ha portato a vincere un premio. Sì, ho ricevuto un premio in denaro dal Dipartimento della Cultura cittadino. Si tratta di dotazioni finanziarie che mi agevoleranno nel mio viaggio all’Istituto Geografico Militare di Firenze, nel quale mi fermerò per un periodo per studiare e trovare informazioni sul generale Italo Gariboldi che, nel 1921, doveva constatare le frontiere tra lo Stato di Fiume e l’Italia e poi tra il Regno di Italia e il Regno Serbo Croato Sloveno. Voglio vedere quali dei tratti esplorati da lui combaciano con le mura tardo-antiche. L’Antica Tarsatica “dorme”sotto Fiume! Era un centro militare di prima classe, ma era anche un emporio Liburnico. Qui ci sarebbero tante e tante cose che potrebbero ‘resuscitare’ però bisognerebbe dirla basta con le parole e passare ai fatti. Oltre al Limes, progetti futuri? Incomincerò a scavare vicino a Bersezio dove ci dovrebbero essere i resti di un castelliere dove vivevano i Liburni, antichi navigatori e pirati. Poi mi sto attivando per presentare in Europa il progetto Claustra Alpium Iuliarum, in modo da farlo diventare uno dei monumenti culturali e storici europei, in via di essere distrutto dalla vegetazione, che necessitano urgente attenzione. Con un’altra associazione, “Žmergo” di Abbazia stiamo collaborando per concorrere al ricevimento di fondi europei destinati alla cultura e al mantenimento del territorio istro-quarnerino, come associazione siamo più agili perché non ci mettiamo i bastoni tra le ruote con la solita burocrazia.
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